
“L’Isis sta arrivando, dove può e quando può, con un messaggio pronto per ogni governo: sottomettiti o muori”. Il drammatico appello contro il Califfato islamico in Iraq e Siria, questa volta, arriva da Tony Abbott, il premier dell’Australia, un paese agli antipodi rispetto al Medio Oriente, apparentemente estraneo alla crisi. Estraneo non lo è, perché almeno cento cittadini australiani si sono arruolati nelle milizie jihadiste e nella vicina Indonesia, il paese musulmano più popoloso del mondo, il numero di reclute è di almeno 500 persone. A Sydney, l’inverno scorso, un terrorista fai-da-te, rivendicando la sua filiazione allo Stato Islamico ed esponendo la bandiera nera dell’Isis, aveva sequestrato il Lindt Café, provocando 2 morti oltre a se stesso. Contrariamente ad Alessandro Di Battista (Movimento Cinque Stelle), Abbott dichiara senza esitazioni che “Non si può negoziare con un’entità come quella, la si può solo combattere”. E la si deve combattere, in tutto il mondo, perché questo “non è terrorismo su scala locale, ma un movimento con ambizioni globali”.
Il giorno prima del drammatico appello di Abbott, il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato l’invio di altri 450 consiglieri militari all’Iraq, per sostenere l’esercito regolare nella sua lotta contro il Califfato. In Iraq, così come in Siria, la situazione appare pressoché disperata. Le milizie jihadiste, dopo aver conquistato Ramadi e Palmira, hanno tagliato le comunicazioni fra l’Iraq e la Siria e quelle fra il Nord e il Sud dell’Iraq. Una volta in possesso di Ramadi, l’Isis ha compiuto un passo in più verso Baghdad e la capitale irachena, affollata di profughi, teme di finire sotto il controllo dell’Isis. L’arrivo dei consiglieri militari americani può contribuire a risolvere il problema, ma solo fino a un certo punto. Come denuncia il segretario alla Difesa, Ashton Carter, quel che manca è la materia prima: la determinazione irachena a difendersi dallo Stato Islamico. I consiglieri americani che già lavorano nel Kurdistan come addestratori, riferiscono una carenza di reclute. I volontari sono sempre meno. Recentemente, a causa delle paghe troppo basse, c’è stato un vero e proprio sciopero dei piloti iracheni che non hanno effettuato missioni di bombardamento e non hanno voluto completare i corsi di addestramento organizzati dagli americani. Anche a Ramadi, i regolari erano potentemente armati, teoricamente ben addestrati dagli americani e numericamente superiori alle milizie dell’Isis, ma di fronte all’offensiva nemica si sono dispersi. Da un anno a questa parte, l’arma segreta del Califfato è, appunto, la divisione dell’Iraq su linee etniche e religione. I curdi vogliono combattere, ma per la loro indipendenza, non certo per la difesa dell’Iraq, che li ha sempre oppressi. I sunniti, che si sentono sottomessi al governo sciita di Baghdad, non vogliono difendere i loro nemici interni e spesso e volentieri passano al nemico. Gli sciiti, dal canto loro, sono determinati a difendere le loro terre (nel centro-Sud dell’Iraq), ma finora non hanno mostrato alcuna intenzione seria di liberare le terre dei sunniti sotto occupazione dell’Isis. Quando gli sciiti riconquistano una città tenuta dall’Isis, ci riescono solo grazie all’apporto determinante di milizie irregolari, molto spesso costituite da iraniani e sotto comando iraniano. Sono queste milizie a commettere le peggiori atrocità contro i civili, nei territori “liberati”, come denunciava già lo scorso ottobre un rapporto di Amnesty International. Invece che una carta vincente nelle mani del governo, diventano un motivo fondamentale di reclutamento nelle file dell’Isis.
Con questa situazione sul terreno, cosa potranno mai fare gli Stati Uniti? Il sito di analisi Debka prevede, da sue fonti, che Obama si deciderà ad autorizzare l’invio anche di truppe di terra, a partire dall’82esima divisione aviotrasportata. Ma è molto poco probabile che questo scenario (già previsto più volte, da un anno a questa parte, e mai realizzato) sia quello destinato a materializzarsi. Gli Stati Uniti hanno finora evitato un intervento di terra, per motivi politici più che militari. Barack Obama ha vinto le elezioni anche grazie allo slogan “via dall’Iraq”. Non riconosce come un errore, il fatto di aver voluto il ritiro tutte le truppe statunitensi dal paese, alla fine del 2011, senza aver lasciato nemmeno una pattuglia alle spalle. Riconosce come errore fatale, piuttosto, l’intervento in Iraq voluto da George W. Bush nel 2003. Con una mentalità così e questo capitale politico alle spalle, è quasi impossibile che Obama si converta alla causa dell’interventismo. Finché questa sarà la sua volontà politica, gli appelli per combattere l’Isis rimarranno belle parole, ma niente di più.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10