Alla radice del garantismo

Jeremy Waldron, giurista d’oltremanica di estrazione liberale, scrisse un libro il cui titolo, visto dall’Italia, induce inquietudine: “Principio di maggioranza e dignità della legislazione”. Ho detto inquietudine perché, fin dalle prime righe della sua opera, Waldron stigmatizza la cronica incapacità dei legislatori - “pagliacciate” è l’espressione usata per qualificare le mirabili produzioni dei parlamentari - di scrivere norme che possiedano, appunto, la dignità che dovrebbero avere le leggi. Nulla di meglio di questa riflessione per introdurre il tema del garantismo, e dei suoi attributi, di cui tanto si parla in questi giorni.

Facciamo una premessa. Garantismo non equivale a buonismo, perdonismo, lassismo e tutti i feticismi strumentalmente attribuitigli. Garantismo non è un’inclinazione dello spirito all’indulgenza e neppure il lavacro dei peccati dei samaritani. A ben vedere, è esattamente il contrario: non sta scritto da nessuna parte che una legislazione garantista non consenta di incarcerare i colpevoli o di applicare pene adeguate alla gravità dei crimini commessi. Piuttosto, è vero che, una volta assicurate le garanzie, l’esito del processo non subisce le critiche alle quali, normalmente, sono esposte le decisioni emesse in Paesi, o sulla base di leggi, non garantiste. Tutto questo, però, non ci dice ancora che cosa sia davvero il garantismo.

Ritorniamo a Waldron. Garantista è di certo una legge scritta bene, sulla base di concetti chiari, non equivocabili e suscettibili di verifica concreta. Ciò vuol dire che gli aggettivi - quelli contenuti nella nuova legge sui reati ambientali - generano confusione e la confusione urta il primo dei pilastri di un garantismo serio: il principio di legalità. Chi sceglie di violare la legge deve essere messo nelle stesse condizioni di chi decide di rispettarla; deve sapere, insomma, quali sono le condotte permesse e quali quelle vietate in termini sufficientemente chiari.

Garantismo non è l’antitesi della libera interpretazione del giudice, ma un freno all’arbitrio di chi, dovendo applicare la legge, potrebbe scegliere a piacimento - e, forse, arbitrariamente - la soluzione che più gli aggrada, così compromettendo anche il principio per il quale siamo tutti uguali davanti alla legge e, aggiungo io, anche davanti ai giudici. Rigore nella predisposizione delle regole sostanziali, dunque. Non basta. Rigore anche nella tutela di chi è accusato: regole processuali che non impediscano l’esercizio effettivo del diritto di difesa. Al riguardo si parla di processo “giusto”, in contrapposizione al processo “ingiusto”. La differenza sta tutta qui: è giusto il processo che rispetta alcuni diritti fondamentali dell’individuo, quali quelli indicati dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Non li elenco, perché li conosciamo tutti: mi limito a dire che sono diritti incomprimibili e non negoziabili, neppure dal legislatore. Sono l’unità di misura del grado di civiltà di una Nazione, che non cede alle sollecitazioni della piazza e che non rinuncia a proteggere chi è destinatario di un’accusa.

Come ho detto, questo non implica che nessuno deve andare in prigione, per dirla chiaramente. In prigione ci devono andare quelli che hanno violato norme chiare e precise e sono stati giudicati secondo le regole, sulla base di prove assunte nel rispetto dei principi sopra ricordati. Questo non è, come sostiene qualcuno, garantismo peloso. Indegno, e non peloso, è strumentalizzare concetti semplici e chiari, di civiltà, sui quali, oggi, non dovremmo essere costretti a spendere neppure una parola.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:28