Matteo Orfini contro la “Spectre”

Su Roma si è abbattuta una seconda ondata di arresti generati dall’inchiesta “Mafia Capitale”. Che si tratti di un pentolone puteolente solo in parte scoperchiato non vi sono dubbi. Con le dovute cautele e nel rispetto dei diritti degli indagati, ciò che si ascolta dalle intercettazioni telefoniche rese pubbliche è qualcosa di stomachevole che fa malissimo alla credibilità delle istituzioni democratiche.

Con la miseria che c’è in giro sentire una banda di delinquenti della politica e della burocrazia esprimersi in modo tanto spregiudicato sulla gestione del denaro pubblico crea più di un disagio. Peggio, spinge i cittadini a desiderare soluzioni “giustizialiste”. Sarebbe allora compito dei maggiori partiti fare, più che dire, qualcosa di credibile per restituire fiducia nella classe politica. Ma siamo al solito teatrino del rimpallo delle responsabilità con accenti parossistici che hanno del sorprendente.

Il più esposto nello scandalo è senza dubbio il Partito democratico. Buon senso avrebbe voluto che il sindaco di Roma, Ignazio Marino, di fronte all’evidenza dei fatti, rassegnasse le dimissioni da primo cittadino. Invece, il Pd sceglie per lui la strada dell’arroccamento. Accade che Matteo Orfini, lunare presidente del partito, al quale il premier ha affibbiato la patata bollente dello scandalo romano, tiri fuori dal cilindro la surreale tesi del coinvolgimento dei servizi segreti in un ipotetico complotto progettato ai danni del Pd. Come se la sua parte fosse immacolata più di un giglio. Devono essersi bevuti il cervello al Nazareno se, a corto di argomenti validi, azzardano la carta della congiura e della “Spectre” che tramerebbe nell’ombra per affossare la luminosa ascesa del “rottamatore” che non rottama. A tutto c’è un limite, anche alle fesserie. Ai giovanotti del nuovo corso brucia l’idea di non poter più utilizzare la formula della presunta superiorità morale della sinistra, che era già una boiata pazzesca ai tempi in cui Enrico Berlinguer la coniò. Altro che servizi segreti! A Roma sono venuti al pettine nodi aggrovigliatisi in decenni di contrapposizione sistemica tra blocchi di potere.

È almeno dagli Anni Cinquanta del secolo scorso che il Pci, legato a maglie strette all’Unione Sovietica, ha imparato a fare da solo dal punto di vista dei finanziamenti illeciti facendo fruttare le esperienze territoriali delle cooperative rosse. Chi li ha conosciuti da vicino ricorda che gli apparati del partito avevano, a tutti i livelli, canali collettori ai quali era demandato il compito del drenaggio delle risorse “sporche”. I giovani virgulti dell’odierno Pd sono figli e nipoti di quella storia, e di quella organizzazione, per cui non si comprende la presa di distanze da un sistema corruttivo del quale, sebbene non fossero parte attiva, sicuramente sapevano. Orfini, Renzi e... Poletti giocano a fare i furbi, ma facciano attenzione perché l’indagine è solo agli inizi. Prima o dopo, compariranno i primi pentiti che, per salvarsi le terga non avendo la stoffa dell’“eroe” Primo Greganti dei tempi di Tangentopoli, cominceranno a spifferare ogni cosa fornendo nomi, cognomi e indirizzi.

Allora neanche la magistratura, che è stata loro amica in questo frangente posponendo la retata degli arresti alla chiusura delle urne delle elezioni regionali, potrà salvarli. Oggi hanno ancora una chance per limitare i danni: dire la verità e fare un passo indietro, rimettendo il mandato agli italiani. Ma sono troppo arroganti e inebriati dalla sete di potere per ragionare con lucidità. Morale della favola: resteranno ai propri posti fin quando tutto non gli sarà crollato addosso. E ancora una volta saranno gli italiani a pagare il conto delle macerie causate.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16