
Vi faranno credere di aver vinto, ma in realtà questa tornata elettorale l’hanno persa tutti.
L’ha persa Metteo Renzi che, per evitare di commentare a caldo, ha preso armi e bagagli ed è andato in Afghanistan onde poi parlare in maniera scontata di un successo. Il Partito democratico arretra rispetto al risultato tondo delle elezioni europee e nessuno dei candidati Governatori usciti vincenti dalle urne fanno parte del suo inner circle. L’unica renziana di ferro è Alessandra Moretti, ma è preferibile stendere un velo pietoso sulle deludenti prestazioni della cosiddetta “ladylike”, la cui carriera politica sembra finita qui. Grazie al cielo.
Renzi aveva compiuto un azzardo consistente nel voler prevaricare la minoranza interna al suo partito, forte del presunto feeling tra il Premier e la pancia del Paese. Adesso è drammaticamente solo e processa il suo partito incolpandolo di fargli quello che egli stesso ha fatto alla “Ditta” con brutale perfidia. Renzi è solo senza alleati sia a destra che a sinistra e deve sperare nel colpo di fortuna di trovarsi ancora in sella al Governo quando la ripresa spingerà anche il nostro Paese. L’alternativa è che, lentamente, questa spesso evocata pancia del Paese cominci ad espellere lui e le sue frasi fatte come un corpo estraneo, strappando quella cambiale in bianco che l’Italia gli aveva firmato.
Tranne la Toscana, le roccaforti rosse cominciano a sgretolarsi (l’Umbria ne è un ottimo esempio), mentre in Regioni come la Puglia e la Campania il traino è costituito dal carisma di candidati come Michele Emiliano e Vincenzo De Luca. In quest’ultimo caso, oltre ai voti di Cosentino (parola di Caldoro), molto ha contribuito la farsa di dubbio gusto posta in essere da Rosy Bindi in Commissione Antimafia. La sedicente moralizzatrice, che voleva affossare De Luca (ed il Premier), ha sortito l’effetto opposto, spingendo l’elettorato ad abbracciare l’ex sindaco di Salerno. Ciò per una forma di reazione alla faziosità della cosiddetta “operazione-impresentabili”, molto più simile ad un regolamento di conti di tipo politico che ad un atto posto in essere da una commissione parlamentare degna di questo nome. Con il livore giustizialista che la contraddistingue e per giunta a ridosso delle elezioni (e cioè quando il diritto di replica era praticamente impossibile), la Bindi ha inteso fare delle arbitrarie illazioni sull’onorabilità di alcuni candidati (tra cui De Luca), basandosi su considerazioni più personali che giuridiche ed impipandosene della presunzione di innocenza o di altre menate che non rientrano nel sistema dei disvalori forcaioli. Certo, per il neo Governatore pesano i problemi legati alla Legge Severino, ma gli elettori lo sapevano e non per questo hanno reputato il giochetto bindiano meno indigesto, tanto da spingere De Luca a querelare “la Pasionaria” spinto dal moto di repulsione proveniente dal basso.
Sull’altro fronte, anche Silvio Berlusconi dovrebbe preoccuparsi: Giovanni Toti, che non è certo De Luca o Emiliano, ha vinto grazie alla debolezza del Pd ligure, il cui masochismo gli ha permesso di prevalere per il rotto della cuffia. Forza Italia non tira più e la stella berlusconiana non brilla ormai così forte da coprire la devastazione di un partito con una classe dirigente inadeguata ed imprigionata comodamente all’ombra di un capo che non si rassegna all’evidenza, ma che intanto paga i conti (sia pur in termini elettorali).
I partiti minori del centrodestra sembrano invece liquefatti (Alfano, Meloni e cespugli vari), morti sotto i colpi di percentuali irrilevanti (anche se a volte crescenti), ma soprattutto sotto una certa presunzione di rappresentare qualcosa senza sapere bene cosa. Non c’è altra scelta per loro se non quella di tornare all’ovile mettendo da parte velleità da megalomani. Stesso discorso vale per le operazioni di esponenti come Tosi e Fitto, tristemente tramontate a testimonianza del fatto che il popolo del centrodestra ha apprezzato il loro coraggio nel fare opposizione interna, ma non ha di certo gradito i velleitarismi che creano frammentazione e cespugli più o meno inutili.
Il partito di Beppe Grillo, invece, viene accreditato come uno dei vincitori di questa tornata elettorale anche se in realtà ha perso tanti voti. Pur apprezzando l’emancipazione del movimento dal suo fondatore, non vediamo alcuna vittoria pentastellata, ma un lento spegnimento dell’entusiasmo intorno a tale progetto. I grillini sono dei perdenti di successo e fondano la loro salute elettorale sul malcontento. Finito il malcontento - e prima o poi finirà - finito il movimento. È questione di tempo ma, non appena in Italia ci sarà un nuovo leader in grado di far sognare la gente, i Cinque Stelle, in quanto sprovvisti di una proposta credibile, si scioglieranno come neve al sole e faranno la fine del capoclasse, buono solo per contestare i professori, ma che poi non si fila più nessuno quando le cose in classe vanno nella direzione auspicata.
La vera sorpresa, a nostro avviso, è costituita dall’exploit della Lega. Il movimento di Matteo Salvini fa il pieno di voti non solo al nord ma anche al centro-sud. Salvini non è solo un buon comunicatore, ma è l’unico in questo momento ad aver colto le vere preoccupazioni degli italiani. Per questo motivo è diventato la bestia nera di certa sinistra, che lo contesta anche in maniera violenta accrescendone le simpatie del corpo elettorale. Salvini è però ad un bivio: sta raggiungendo il punto di massimo in termini di consensi del suo partito ed è quindi chiamato ad un salto di qualità. Può scegliere di rimanere imprigionato nel mare magnum della protesta andando a costituire un movimento di simil-grillini di destra o può, più saggiamente, farsi promotore dell’unità del centrodestra partendo da una posizione di forza che lo vede come partito trainante del campo moderato. Per Salvini questo è il momento più delicato, perché l’alternativa è continuare a cazzeggiare con la protesta o studiare da statista dimostrando di essere diverso dagli Alfano o dai Fini di turno, catalizzando l’aggregazione in un contenitore unico che garantisca una posizione onorevole a Berlusconi ed abbia la forza di annichilire le velleità del Pd renziano, che è e resterà minoranza nel Paese. È il suo momento, perché una simile operazione fatta adesso potrebbe portargli un ritorno enormemente maggiore rispetto al reale valore della Lega in termini elettorali.
Ma non è una questione di mera opportunità: gliene saranno grati il popolo dei moderati, gli elettori che non si riconoscono nella sinistra, e la storia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09