
L’interrogativo politico di fondo legato alle elezioni regionali riguardava il Partito democratico di Matteo Renzi e la sua capacità di mantenere non tanto la quota di consenso conquistata alle precedenti elezioni europee, quanto il ruolo politico assunto grazie a quell’incredibile 41 per cento. Il risultato del voto di domenica ha fornito una risposta inequivocabile a quell’interrogativo. Il Pd di Renzi non è riuscito a mantenere né la quota, né il ruolo ottenuto all’epoca del voto per il Parlamento europeo.
Le cifre parlano chiaro. In Veneto il Pd ha perso addirittura venti punti rispetto alla quota stratosferica del passato. Ed in media, nelle altre regioni, è sceso di più del dieci per cento tornando ad avvicinarsi alla consistenza della “ditta” dei tempi di Pier Luigi Bersani. Questo risultato è certamente dipeso dal boicottaggio aperto e dichiarato della sinistra interna e della Cgil. Ma se Renzi avesse conservato il ruolo delle Europee avrebbe dovuto tranquillamente bilanciare la perdita della scissione di fatto dei suoi oppositori intestini, conquistando fette di elettorato moderato del centrodestra.
Non doveva essere questa la caratteristica principale del cosiddetto “Partito della Nazione” che, dando per scontata la perdita della sinistra più radicale, avrebbe dovuto manifestare la sua vocazione maggioritaria allargandosi ai territori un tempo occupati dagli elettori del centrodestra berlusconiano?
Il bilanciamento non c’è stato. Renzi non si è limitato a perdere i voti dei suoi nemici interni. Non è riuscito in alcun modo ad intercettare i consensi di quelli che un tempo erano stati i sostenitori del Cavaliere e che avrebbero dovuto correre a dare peso e forza al nuovo mega-centro destinato a diventare la forza politica dominante del Paese.
Tutto questo, naturalmente, non avrà ripercussioni immediate sul Governo. Ma apre una fase totalmente nuova e diversa per la parte restante della legislatura. Se Renzi perde a sinistra e non sfonda al centro, lo scenario politico cambia radicalmente. Perché “l’uomo solo al comando” deve prendere atto che da adesso in poi deve tenere conto dell’esistenza di altri due interlocutori. Del Movimento Cinque Stelle, che conserva ed aumenta la sua capacità di intercettare la protesta. E di un centrodestra che, come le vicende della Liguria e dell’Umbria insegnano, ha ora la prova concreta che se riesce a ritrovare la propria compattezza può tornare ad essere l’unica alternativa di governo alla sinistra. La fuga trionfale dell’uomo solo al comando, in sostanza, si è interrotta. Il fuggitivo è stato ripreso. E ora la corsa ricomincia!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16