No-Expo, due retoriche per celare la realtà

La retorica della rinascita milanese dopo la “calata” dei lanzichenecchi antagonisti fa il paio con la retorica della strategia adottata dalla polizia per contenere la furia dei violenti preferendo i danni alle vittime. Si tratta di retoriche difensive. Che tendono da un lato a nascondere l’effetto mediatico ottenuto dai facinorosi macchiando con le devastazioni la giornata d’inaugurazione dell’Expo. E dall’altro a cancellare il dato inequivocabile, frutto di un pregiudizio culturale e politico che risale al G8 di Genova, della impossibilità della polizia di garantire l’ordine pubblico nelle manifestazioni di piazza in maniera diversa da quella adottata non solo a Milano ma in tutti gli avvenimenti da cui sono scaturiti incidenti e violenze.

Per spiegare questo dato non c’è bisogno di grandi elucubrazioni. Il Paese in cui si dedica una sala del Parlamento al giovane Giuliani ucciso per reazione da un carabiniere mentre tentava di sfondargli la testa con un estintore non può di sicuro permettersi una gestione dell’ordine pubblico diversa da quella del “meglio i danni che le vittime”. Questo non significa che a Milano la polizia avrebbe dovuto applicare il “metodo Diaz”. Che non ha mai giustificazioni di sorta. Significa, al contrario, che le forze dell’ordine avrebbero dovuto e dovrebbero operare prima del passaggio dei lanzichenecchi con un’adeguata azione di intelligence per identificare gli artefici e gli ideatori delle azioni di guerriglia urbana.

Perché questa azione non c’è stata o, comunque, è stata del tutto insufficiente? La risposta viene dalla retorica della rinascita, che serve sicuramente a ripulire l’immagine dell’Expo, di Milano e del Paese dopo gli imbrattamenti dei teppisti, ma che serve soprattutto a nascondere l’impossibilità politica e culturale di analizzare il fenomeno dell’antagonismo in maniera corretta e di adottare le misure più adeguate per contenerlo.

Questa assenza di analisi è in tutto simile a quella relativa al mondo dell’autonomia e delle prime Brigate Rosse all’inizio degli anni di piombo. Anche allora, come adesso, si sosteneva che gli autonomi ed i primi brigatisti erano degli isolati fanatici e si teneva sempre a distinguere nettamente, sempre come ora, tra la massa pacifica dei cortei ed i pochi infiltrati che scatenavano gli incidenti. L’esperienza di allora dovrebbe insegnare che, allora come adesso, i cortei pacifici rappresentano l’acqua in cui i facinorosi sguazzano liberamente come pesci. E che se non ci fosse la copertura culturale, politica e fisica di chi marcia pacificamente, non ci potrebbero essere i guastatori che escono dal corteo, devastano e, dopo essersi spogliati e coperti dai fumogeni, rientrano nel corteo e nell’anonimato.

Nei cortei degli anni Settanta i marciatori pacifici conoscevano perfettamente nomi e cognomi dei guastatori del tempo. In quelli di adesso è facile presumere che avvenga lo stesso. Il problema, allora, non è l’esistenza di alcune centinaia di teppistelli figli di papà che si dilettano con le devastazioni. Ma è l’esistenza di una fascia di opinione pubblica che è stata educata da anni all’antagonismo ed alla contestazione della democrazia liberale e che copre sempre e comunque, come accade regolarmente per i no-Tav e per chiunque porti avanti anche violentemente la linea del no allo sviluppo, i gruppi considerati le “avanguardie della rivoluzione”.

Contro questa fascia, che è ristretta ma gode di consensi in larghi settori della cultura e della politica del Paese, si deve agire politicamente e culturalmente. A quando una nuova Rossanda che tiri fuori l’album di famiglia?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:19