Il caso della “Diaz” e   il doppio Stato ipocrita

Una volta si parlava di doppio Stato. Quello che sarebbe stato fedele all’Italia e quello che sarebbe stato obbediente alla Nato.

Questa tesi, cara alla pubblicistica di sinistra, era totalmente fasulla. Perché nascondeva la convinzione dei comunisti che lo Stato alternativo a quello dipendente dalla Nato dovesse essere comunque dalla parte nemica del mondo occidentale e, quindi, ossequiente all’Unione Sovietica. In realtà, nell’epoca della guerra fredda e della divisione dei blocchi, l’Italia che era uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale non poteva non essere fedele al blocco a cui era stata assegnata, cioè l’Occidente. Questo, però, solo ufficialmente perché, ufficiosamente, pezzi diversi dello stesso Stato si collocavano, secondo le circostanze e gli interessi, in posizione di dipendenza e di subordinazione nei confronti del mondo comunista, del Vaticano, della Fiat, dell’Eni e di qualsiasi altro potere interno ed internazionale avesse interesse ad esercitare una qualche influenza sulla penisola posta al confine tra Ovest, Est e Sud.

Oggi quell’epoca del doppio, triplo e quadruplo Stato non c’è più, sostituita da quella ufficiale della dipendenza ai poteri europei e quella ufficiosa della subordinazione ai nuovi interessi particolari. Ma la teoria del doppio Stato può essere riesumata per altre vicende. In particolare per commentare il grande clamore sollevato prima dalla sentenza europea sulla tortura alla “Diaz”, poi dalle polemiche sul ruolo dell’allora capo della polizia ed oggi presidente di Finmeccanica, Gianni De Gennaro, ed ora dalla affermazione di uno degli agenti manganellatori di non vergognarsi affatto delle botte ai contestatori ma di essere pronto a ripetere l’impresa una, cento, mille volte.

Ma perché la formula del doppio Stato per questa vicenda? Perché è dal 2001 che nel Paese c’è lo stato ufficiale che santifica il contestatore Carlo Giuliani ucciso mentre si apprestava a massacrare un carabiniere e c’è uno Stato ufficioso che non si permette di prendere ufficialmente le parti delle forze dell’ordine impiegate nella repressione degli estremisti che misero a ferro e fuoco Genova per dare una spallata al neonato governo di centrodestra ma, sottobanco, cerca di non scaricare del tutto chi è chiamato giornalmente a garantire la sicurezza dei cittadini.

La convivenza tra questi due Stati, quello che glorifica Giuliani e quello che premia De Gennaro, non è facile. Ne sa qualcosa il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che in nome del primo Stato oggi minaccia un’inchiesta severa a carico dell’agente manganellatore non pentito e che ieri ha difeso con Matteo Renzi la posizione dell’ex capo della polizia. E c’è il fondato pericolo che l’unica strada per tentare di conciliare gli inconciliabili sia quella di far volare lo straccio di turno, cioè l’agente non pentito. Il tutto per poter continuare a beatificare Giuliani, beneficiare De Gennaro e tenere buone quelle forze dell’ordine che sono indispensabili non solo per garantire un minimo di sicurezza ma anche per qualche futura possibile repressione!

Ma non sarebbe l’ora di farla finita con questa eterna ipocrisia?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:17