La chimera delle leggi contro la corruzione

Come era scontato, l’ennesimo scandalo di pubblica corruzione vede in prima linea i forcaioli di ieri e di oggi, grillini in testa, a rivendicare l’ennesima legge in grado di contrastare il malaffare politico-burocratico.

 

Al pari di altre storiche problematiche - pensiamo ad esempio al tema dell’evasione fiscale - la fiducia di codesti moderni epigoni di Savonarola nel potere taumaturgico di un dettame elaborato in Parlamento è lo stesso che Freud attribuiva, nel suo celeberrimo “Totem e Tabù”, agli uomini primitivi, i quali credevano ciecamente al potere magico di alcune parole. Per questa gente, in estrema sostanza, la forza di una legge scritta e un drastico inasprimento delle pene rappresentano la ricetta migliore per mandare a casa i ladri, o presunti tali, che infestano la nostra elefantiaca pubblica amministrazione, comprendendo anche la sfera politica.

Si tratta solo di trasformare la nostra Repubblica delle banane in una sorta di sistema rivoluzionario gestito da rinnovati comitati di salute pubblica e il giochino è fatto. Disseminando il Paese di controllori che a loro volta controllano altri controllori, sotto la spada di Damocle di sanzioni durissime, costoro pensano di moralizzare in maniera capillare uno Stato burocratico e assistenziale che spende oltre il 55 per cento del Prodotto interno lordo. Dunque, in estrema sintesi, la ricetta dell’immarcescibile fronte forcaiolo è la stessa che sentivamo ripetere come un mantra ai tempi di Tangentopoli: in galera i corrotti e tutto il potere ai soviet degli onesti.

Niente a che vedere, dunque, con quella molto minoritaria - ma non per questo priva di un grande fondamento teorico - critica di sistema che la nostra irriducibile pattuglia liberale cerca di far emergere nel mare magnum dell’attuale informazione. Una critica di sistema che si basa su una legge non scritta, ma sempre molto efficace come modello di riferimento, la quale ci continua a segnalare che l’uomo diventa ladro soprattutto quando gli capita l’occasione di esserlo. Da qui ne discende un modello di riferimento liberale che riduca l’intervento pubblico, migliorando l’azione di controllo esercitata dallo Stato. In altri termini, ciò significa limitare il potere di spesa da parte della politica, aumentandone però quello di controllo. Oggi invece, per ovvie ragioni di facile consenso, siamo costretti a seguire il paradigma di una democrazia che si occupa di tutto e di tutti con risultati a dir poco catastrofici. Proprio sul piano dei grandi progetti infrastrutturali - settore sul cui sfondo si sviluppa la scandalo emerso di questi giorni - esiste una norma, la ben conosciuta legge obiettivo del 2001, che dal lato delle regole sugli appalti è stata modificata centinaia di volte nel corso del tempo. Eppure non mi risulta che questo incessante lavorio parlamentare abbia in qualche modo frenato il malaffare dilagante. Né tanto meno la proliferazione di authority e supercommissari sembra aver sortito effetti apprezzabili.

Nel Paese dei furbi e dei parassiti pensare di combattere la corruzione con le buone intenzioni di una norma scritta equivale a voler svuotare il mare con un colabrodo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:11