L’ottica ristretta  dell’eterno Pm Grasso

“Alleluja, alleluja”. L’entusiasmo con cui il Presidente del Senato Piero Grasso ha salutato lo decisione del governo di sbloccare l’iter parlamentare della legge che aggrava le pene per la corruzione ed il falso in bilancio alimenta la convinzione che basti aumentare pene e tempi di prescrizione per riportare virtù e moralità nel nostro Paese.

Ma si tratta di un’illusione. Perché le norme contro la corruzione già esistono da tempo. Tant’è che la magistratura avvia inchieste su inchieste sulla base della legislazione già esistente. E se chiede provvedimenti più severi contro i fenomeni corruttivi non è per non rimanere impotente nei confronti di questa piaga nazionale, ma solo di avere a propria disposizione strumenti in grado di aumentare il proprio potere di discrezionalità e di durata delle indagini. Non stupisce allora che Grasso, pubblico ministero trasmigrato in politica, sia entusiasta per lo sblocco del provvedimento da lui proposto. La nuova forma di anti-corruzione è il frutto di una pressione corporativa dei magistrati. Forse consentirà di favorire il loro lavoro ma non servirà di certo a dare una qualche soluzione accettabile al problema.

Per farlo, con tutto il rispetto che si deve ai magistrati, c’è bisogno di una visione più ampia e diversa del fenomeno da combattere. Una visione che parta dal dato dell’esperienza secondo cui più lo Stato si espande e si burocratizza, su pressione e spinta delle forze politiche che dalle strutture dello Stato traggono alimento e vita, più il fenomeno corruttivo si allarga e si radicalizza.

Grasso può anche pensare in buona fede che aumentare di qualche anno le pene ed allungare i tempi della prescrizione possa riportare miracolisticamente la legge e l’ordine nel Paese. Ma la realtà è che le grida di manzoniana memoria più aumentano e più rimangono lettera morta. Se non si incomincia a prendere atto che la fonte di ogni corruzione è data dall’incredibile farraginosità e complessità degli apparati dello Stato dove da decenni, senza alcuna interruzione di sorta, si è praticato il consociativismo corruttivo gestito da burocrati incontrollati e di cui hanno usufruito tutte le principali forze politiche del Paese.

Per anni, grazie anche all’azione distorta di certa magistratura, si è ingenerato nel Paese la convinzione che la corruzione fosse un fenomeno tipico di una sola parte politica. I ladri, per definizione, erano solo i democristiani, i socialisti ed i loro alleati minori laici. Poi, quando il sistema di potere è caduto, ad essere identificati come ladri sono stati gli eredi dei partiti democratici della Prima Repubblica. L’avvento dell’Italia morale antagonista di quella corrotta avrebbe dovuto eliminare il fenomeno. Invece la corruzione resiste ad ogni cambio di regime ed ad ogni legge più repressiva. E l’Italia che era considerata migliore si rivela identica e soprattutto consociativamente legata a quella cosiddetta “peggiore”. Non perché gli italiani siano tutti portatori di un vizio genetico. Ma perché gli interessi di lobby di potere politico ed economico assolutamente trasversali hanno costruito e tengono disperatamente in piedi una struttura che si rivela sempre di più come una fabbrica di illegalità. Quella illegalità che il buon Grasso, Pm anche come Presidente del Senato, vede solo nell’ottica ristretta dell’inchiesta penale!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:15