“Riforme strutturali”,   l’illusione renziana

Ospite del valido Nicola Porro, un ingrassato Premier si è presentato davanti alle telecamere per fare una sorta di bilancio politico ed economico del suo primo anno di governo.

Al di là della montagna di chiacchiere con cui Matteo Renzi ha cercato di stordire l’uditorio, ho avuto la netta impressione di osservare un uomo piuttosto stanco e decisamente in difficoltà a convincere persino se stesso circa l’efficacia della sua ricetta riformistica. Una ricetta la quale, come stanno confermando tutti i dati fin qui registrati, non sembra spostare di una virgola l’andamento traballante di un Paese in perenne difficoltà. E a nulla serve prendersela con i presunti gufi, così come gli ha fatto duramente capire l’amico Giannino in una impietosa requisitoria in diretta.

La cornice entro la quale l’ostentato ottimismo del Presidente del Consiglio vorrebbe spingere cittadini e imprenditori ad investire è ancora piuttosto fosca. Su questo piano Renzi continua a promettere un cambio di passo citando una delle tante formulette magiche della nostra fallimentare politica: riforme strutturali. Riforme di ampio respiro in grado, a suo dire, di convincere anche gli investitori più prudenti a scommettere sull’Italia. Tuttavia, ed è questo il punto centrale, l’idea che Renzi e i suoi colleghi politicanti hanno delle chimeriche riforme strutturali non è la stessa di chi, osservando in modo neutrale i gravi nodi che affliggono il Paese, ha da tempo individuato alcune impopolari necessità, tra cui un drastico taglio della spesa pubblica.

Per chi guarda esclusivamente al consenso, così come ha dimostrato di fare Renzi dal primo giorno nel quale si è insediato nella stanza dei bottoni, le riforme strutturali si declinano in un sistema miracoloso in grado di venire incontro alle ragioni della produzione e dello sviluppo senza però scontentare gli interessi colossali di chi vive di Stato. Ovviamente si tratta di una pura illusione propagandistica, ma essa è ancora molto rassicurante presso un popolo drogato da decenni di assistenzialismo finanziato con le tasse e i debiti. Sotto questo profilo, onde rimettere in carreggiata un sistema sconquassato, occorrerebbe proprio cominciare a ridurre i costi del medesimo Stato assistenzialista, il quale continua a spendere e intermediare una quantità di risorse incompatibili con qualunque tentativo di ripresa. Detti costi gravano sotto le più svariate forme di prelievo sugli investimenti produttivi e sui consumi, rendendo sempre meno conveniente comprare e investire in Italia.

Da questo punto di vista, come dimostra il licenziamento del commissario alla “spending review”, Carlo Cottarelli, il Governo Renzi non ha alleggerito di un euro il fardello di un sistema burocratico e assistenziale mostruoso, mantenendo nei fatti un livello effettivo della pressione fiscale assolutamente insopportabile. Questa è la storia e a ben poco serve trincerarsi dietro gli auspici salvifici del cosiddetto Jobs act, ultimo grido renziano per convincere chi sta da tempo alla finestra ad investire nel Paese di Pulcinella, nonostante l’immutata ferocia della tassazione.

Dopo un anno si è ben compreso che la direzione dell’esecutivo dei rottamatori non è affatto quella che serve alla nostra economia. Lo zero spaccato in termini di crescita con cui si è chiuso il 2014 rappresenta la più evidente dimostrazione che con le chiacchiere e i tweet non si farà mai giorno.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13