Il Colle e l’immaginetta

Non sarà sfuggito agli attenti lettori il lavoro giornalistico di certosino, simile all’artigianato del tempo che fu ma enfatizzato oggi dalla potenza della tv, nell’edificazione di un altare votivo sul Colle più alto di Roma dedicato al suo nuovo inquilino. Se ci pensate bene, si tratta dell’identico lavorìo che si svolse intorno all’altro inquilino subentrato a Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi nel 2011, Mario Monti. Mattarella e Monti sono assurti alla gloria degli altarini per una serie di motivi politici ben spiegabili. Ma uno e uno solo di questi spiccava e spicca: l’antiberlusconismo.

Poco conta che l’interessato Cavaliere non abbia avuto la prontezza di riflessi di sottrarre quell’elezione al “cappello” dei suoi nemici storici quando bastava dire di sì a Matteo Renzi che gli offrì da ingoiare più che un candidato un “rospo”, ma, in politica, come nelle fiabe, rospi e rane si trasformano spesso in principi e principesse. Quel che conta è la “vulgata mattarelliana” messa in giro e in onda dalla “mainstream press” con frasi e parole che rimandano, in certi passaggi, a identiche pennellate elogiative per Monti, valga per tutte il ricorso al cappotto in Loden, al tessuto di un indumento invernale che aborre il commendatizio e rizzoliano “cammello” rifiutando, nel contempo, il cachemire pacchiano da nuovi ricchi. Il loden come alternativa sobria all’ubriacatura del trash, del mondano, della volgarità arricchita.

La trasformazione di una persona oggettivamente per bene, educata, preparata come Sergio Mattarella in un personaggio di cui non ci si stanca mai di ammirare e indicare pregi, storie, dettagli e passaggi di altissimo pregio, si da porli come esempi alla politica di oggi affinché, come si diceva, “i giovani sappiano e gli anziani ricordino”, merita un aggiustamento, quanto meno. Tra l’altro, la ministra Maria Elena Boschi, in genere piuttosto discreta nei giudizi, ha avuto per il nuovo Presidente della Repubblica parole inconsuetamente retoriche soprattutto là dove lo ha indicato come un autentico “rottamatore”, che sia un riflesso pavloviano rispetto al suo grande capo? Ora: Mattarella è stato ministro, nella prima Repubblica con Giovanni Goria, con Ciriaco De Mita e con Giulio Andreotti; nella seconda con Massimo D’Alema. Ha ricoperto il ruolo di vicesegretario della Democrazia Cristiana. Ha lavorato intensamente alla legge storica che ha preso poi il nome di Mattarellum, e poi è approdato come giudice alla Corte costituzionale da dove ha contribuito a bocciare la legge che aveva sostituito la sua, il Porcellum. Ed ora, dal Quirinale, dovrà arbitrare l’ennesima partita istituzionale collegata a una nuova legge elettorale. È curioso, e vagamente surreale, che a un curriculum simile (di tutto rispetto, intendiamoci, ma anche quello di Giuliano Amato, Walter Veltroni, Anna Finocchiaro e Massimo D’Alema) si possa apporre anche il marchio oggi più in voga di “rottamatore”. Ma di che stiamo parlando? È nelle sue dimissioni dal Governo Andreotti che si depongono, proprio come in un’immaginetta mistica, i petali odorosi di lodi sperticate per quella famosa decisione sulla legge “Mammì” che, a tutti gli effetti, fu imposta a cinque ministri: Riccardo Misasi, Carlo Fracanzani, Mino Martinazzoli, Calogero Antonio Mannino e Mattarella, appunto, dal potentissimo segretario democristiano Ciriaco De Mita cui i cinque facevano riferimento, obbedendogli militarmente. Naturalmente si attribuisce al gesto, che era indubbiamente correntizio, una valenza alta e nobile, non solo politica, ma anzi, etica, degna di un forte impulso morale, lo stesso che segnerà il discrimine nel ventennio della seconda Repubblica, fra destra e sinistra, e anche nella sinistra, e comunque nei confronti del Cavaliere e del famigerato conflitto d’interessi.

Notiamo, “en passant”, che nella variegata e rutilante galleria della filiera, mettiamo di Enrico Mentana de “La7”, sarebbe divertente e istruttivo che qualche siparietto autoironico fosse dedicato al gioco delle “sliding doors”, quello del “che cosa sarebbe successo se...”. Ecco, se la legge Mammì sulle tv commerciali, di Berlusconi innanzitutto, non fosse stata approvata, giuste le dimissioni dei mitici cinque ministri demitiani, che cosa sarebbe successo? Non a Berlusconi, per capirci...

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 17:56