
Volevo scrivere una lettera, voglio scriverla, ma non saprei a chi se non al direttore. Più che una lettera una riflessione, meglio, un’intuizione derivante da un’impressione, impressione per di più sgradevole che mi ha colpito l’altra sera quando in un telegiornale della Rai ho ascoltato da un senatore panciuto di nome Vincenzo D’Anna, la parola “culo” che mi vergogno di scrivere qui, esattamente come non si sono vergognati quelli della Rai di farcelo sentire in “prime time”. E non dico di più dell’autore col laticlavio, simbolo - in buona compagnia del “vaffa” salviniano e dell’insultometro impazzito dei grillini - del posto dove non batte il sole in cui la politica di oggi ha relegato la sua ragione d’essere.
Ecco, in quel preciso momento, un lampo impressionistico ha illuminato un’altra parola, un altro nome, quello di Antonio Martino, testé indicato da Forza Italia come candidato di bandiera per il Colle. Il nome luccicava come un regalo prezioso nella notte della politica degradata da una tv cannibalesca a una discarica. Peccato, però, che quel nome, quella designazione, fosse accompagnata da un codicillo aggiuntivo che non mi è piaciuto. Ed è questa l’altra considerazione - una sorta di sfogo - di questa mia impropria lettera-riflessione. Le parole come pietre, direbbe qualcuno.
Un’indicazione come “bandiera”, si dice di Martino, cui, peraltro, la bandiera piace, come a noi, ma a Martino di più che l’avvolse da ragazzo nel suo vessillo di Liberale doc. Ora io aggiungo: perché di bandiera, e solo di bandiera? Certo, l’avevamo sommessamente proposto anche noi come il migliore dei candidati, ma non della sola Forza Italia o del centrodestra, sigla onnicomprensiva cui partecipano, peraltro, altri illustri candidati dal physique du rôle indiscutibile, come Pier Ferdinando Casini. Il physique du rôle non è soltanto un’espressione modaiola, una tipologia snobbistica lieve come il vento. Tutt’altro, come nota con arguzia impressionistica Pietrangelo Buttafuoco: “Uomo di mondo, Martino, ed è conosciuto in tutto il mondo. Indossa abiti da vero signore (non è un parvenu pronto ad ubriacarsi di sarti alla voga) e pratica lo humor degli eccentrici, discende da una schiatta che vivifica la tradizione del galantomismo. È di Messina...”, ecc. ecc. Proprio così, e in quel “vero signore” noi ravvediamo una chiave interpretativa per accedere alla decrittazione di una realtà opposta che ci circonda, laddove essere signori è quasi sempre confuso con l’essere ricchi, con la quantità più che con la qualità. Vero signore è, al contrario del significante, il portatore di una semplicità naturale che si distingue immediatamente dalla volgarità e la ripudia rintuzzandola e relegandola dietro, molto dietro, anzi di dietro.
Il nuovo Presidente della Repubblica dovrà assumere, dunque, un compito tanto urgente quanto gravoso e impegnativo: di un fratello maggiore che è maestro, professore, docente, e leader dotato della tacitiana “simplicitas elegantiae”. In lui la forma dovrà coincidere col contenuto. E l’eloquio intrecciarsi con la sobrietà, senza tuttavia gli esiti dell’ingessatura dove spesso è scivolato il pur dignitoso ex re Giorgio. Dovrà essere un simbolo alto e offrire un’immagine a un tempo umana e nobile, semplice ma pedagogica. La pedagogia inizia dalla visione stessa del presidente che diventa un modello che si impone, che si legittima e si carica di onori con la forza e con la misura con cui è capace di rovesciare, di cancellare il modello opposto del senatore panciuto, emblema del trash di una politica che ha smarrito, innanzitutto, le sue consapevoli finalità.
Non facciamo dunque l’elogio dell’“arbiter elegantiarum” e neppure un appunto saggistico sulla postura in tv e fra la gente, che pure ha importanza. Del resto, uno come Martino sa queste cose, sono nel suo dna. Semmai, nella figura del candidato “tout court”, Antonio Martino è ravvisabile e raggiungibile, a nostro parere, s’intende, la tensione di una svolta necessaria, la missione di un cambiamento, non solo di passo come ripete e fa, ovviamente di corsa, l’irruente Premier. Ma di modo d’essere. Di stile, appunto.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12