
Ci sono due buoni motivi per trasformare il caso del sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, in un caso di rilevanza nazionale. Il primo riguarda la Legge Severino. Che, dopo il caso De Magistris, per la seconda volta viene applicata ad un amministratore di una grande città e per la seconda volta viene contestata e, con ogni probabilità, sconfessata da una sentenza del Tar.
Poiché la Legge Severino è quella che ha permesso alla sinistra di conseguire il sogno perseguito per vent’anni di espellere dal Parlamento Silvio Berlusconi nell’illusione di eliminarlo completamente dalla scena politica, nessuno si permette di affermare che quel provvedimento è totalmente sbagliato. Sia perché ispirato ad un giustizialismo inconcepibile in uno stato di diritto, sia perché si è rivelato un devastante fattore di freno e di intralcio al funzionamento del sistema delle autonomie locali e, in generale, del sistema democratico.
La Legge Severino, in sostanza, va abrogata o corretta radicalmente. Non per salvare il soldato Silvio, che a quanto pare si salva da solo, ma per evitare che la sua applicazione produca ancora contenziosi inutili, paralisi amministrative certe, costi aggiuntivi per la comunità e lo stravolgimento del principio della sovranità popolare.
La seconda ragione che spinge a trasformare il caso De Luca in una questione di rilevanza nazionale riguarda il cosiddetto “mal di firma” che il sindaco di Salerno ha denunciato e che colpisce ormai l’intera amministrazione pubblica del Paese. Questo male è la paralisi decisionale che ormai dilaga in tutti i settori pubblici, da quelli delle amministrazioni locali a quelli degli snodi centrali del sistema statale. Una paralisi provocata dalla paura di compiere atti, magari necessari, magari ineccepibili sul piano formale e sostanziale, ma comunque sempre esposti ad iniziative giudiziarie dagli esiti ultimi imprevedibili ma dalle conseguenze immediate sicuramente negative, infanganti e, soprattutto, destinate a bloccare il funzionamento della Pubblica amministrazione. È vero che il fenomeno della corruzione è cresciuto a dismisura nel nostro Paese, soprattutto nelle amministrazioni locali. Ed è giusto compiere ogni sforzo per frenarlo e riportarlo nei limiti fisiologici di qualsiasi sistema. Ma la terapia emergenziale applicata ormai da decenni per combattere il malaffare non solo non è riuscita ad avere risultati tangibili (da Mani Pulite ad oggi la corruzione è addirittura esplosa), ma ha prodotto il fenomeno denunciato da De Luca che produce un singolare paradosso. Quello secondo cui il “mal di firma” colpisce ed incombe su tutti gli amministratori onesti e corretti e lascia del tutto indifferenti quelli corrotti. Che sfidano il pericolo di una qualche inchiesta giudiziaria nella convinzione che a rubare ci sia sempre da guadagnare.
Il mal di firma blocca il Paese. E per aggirarlo non basta ricorrere, come hanno fatto alcuni sindaci politicamente corretti, o inserire nelle giunte comunali qualche magistrato esperto di antimafia o di anticorruzione. Perché la strada di trasformare i magistrati in amministratori non porta ad alcun risultato oltre quello di danneggiare al tempo stesso il sistema giudiziario e quello amministrativo e politico. Ognuno faccia il suo mestiere. A cominciare dalla classe politica. Che dovrebbe capire che l’unico modo per far ripartire il Paese è quello di liberarlo dalle ingessature giustizialiste che lo paralizzano e lo condanno al declino.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:15