Il Patto del Nazareno è una roba seria...

Prendetele come riflessioni del tutto personali, per carità. A me pare che il Patto del Nazareno corra il rischio di passare alla storia (o alla cronaca) del nostro villaggio italico come l’idea portante più solida del cosiddetto e improprio - e vedremo perché improprio - “dopo Berlusconi”, e spesso e volentieri viene messo in discussione all’interno dei due schieramenti che pure l’hanno sottoscritto. Ma, come si arguisce dagli screzi reciproci, non è mai una cosa seria la sua contestazione.

Contestazione ridicola, addirittura, quella di un Maurizio Landini che sfrutta la scissione di Sergio Cofferati salutandola come una svolta alla Alexis Tsipras e motivandone le radici nell’immoralità del patto del Nazareno, insistendo soprattutto con questa accusa etica che sembra davvero il corrispettivo del rifarsi al patriottismo come ultimo rifugio degli imbroglioni. Detto poi da un sinistro doc come il boss della Fiom, uomo politico a tutto tondo e dunque ben consapevole dell’autonomia della politica. E come se ignorasse quanto fecero i leader comunisti a proposito di alleanze col diavolo, con Belzebù, con un Re fuggitivo e screditati (svolta di Salerno), coi fascisti in Sicilia in nome dell’autonomia, con Giulio Andreotti e prima con Aldo Moro.

La pretestuosità di un simile moralismo d’accatto è insita pure nello stucchevole tira e molla del civatismo, ennesima variante dell’opposizione interna da talk-show che lascia il tempo che trova, ma anche le scorie impure dello strumentalismo. E non vi è dubbio che Matteo Renzi non esce incolume da questi sfregi, al di là delle repliche dure dei suoi al cofferatismo inteso come accaparramento di ruoli&posti&poltrone nel partito e abbandonati come optional in cerca di altri fringe benefits che, qualora negati, spingono a scissioni.

Sull’altro versante del contraente del patto, in mezzo a beghe e incapricciamenti vari, spiccano le accensioni di Renato Brunetta contro il Nazareno, destinate questa volta a non spegnersi subito anche per le contromosse di Paolo Romani & Co con relative raccolte di firme versus Brunetta, poi stoppate da Berlusconi in quello che sembra, qua e là, più un “divertissement” da luna park, fra tiri al bersaglio, montagne russe e riffa, e le immediate risse interne, ancorché dagli effetti non innocui basti pensare alle insidie di un Raffaele Fitto alle viste della partita del Quirinale con relativi giochi al massacro in virtù del voto segreto e delle alleanze spurie sollecitate all’interno dei partiti.

Ma diciamocelo, almeno “inter nos”, il Nazareno è destinato a resistere anche questa volta, soprattutto questa volta per il Quirinale, nonostante l’indebolimento oggettivo di Renzi, vuoi per i sondaggi calanti, vuoi per la scia del cofferatismo in uscita dal Partito Democratico. Anzi, proprio questa “mini debacle” renziane dovrebbe rafforzare in Forza Italia la spinta per tenere in piedi e semmai potenziare quel patto, non dico sfruttando i malesseri di Renzi che pure sono analoghi a quelli del Cavaliere, ma dividendo insieme oneri e onori nel gioco, si spera vincente, di una partita decisiva per il Paese.

Quanto ai malesseri dei due schieramenti, quello all’interno di FI è francamente il più contortamente strumentale, come in un groviglio di contraddittori risentimenti personali in cui la politica c’entra assai poco. Nulla infatti viene concretamente opposto all’iter del patto, salvo comprensibili impuntature del ruolo del capo di un gruppo parlamentare insidiato da Fitto con le sue lamentele, comprensibile sul piano elettoralistico ma poco convincenti sul piano politico allorquando lucida e mostra l’arma contundente delle primarie che, riferita all’essenza più vera del movimento incarnato da Berlusconi risulta a dir poco virtuale, sol che si tenga presente che tale essenza è la “raison d’être” di Forza Italia sulla quale, peraltro, il suo gruppo dirigente, a cominciare da Fitto (e dall’allora “enfant gâté” Angelino Alfano) e da tutti gli altri, nessuno escluso, non ha mai elaborato, soprattutto nei giorni di gloria e di pace interna, un’alternativa degna di un gruppo dirigente consapevole del proprio ruolo, fautore, per di più, di un liberalismo di massa, peraltro messo sempre in penombra, come il suo più autentico esponente Antonio Martino.

Il fatto che proprio l’“enfant una volta gâté” è oggi in un altro partito e chieda a Berlusconi una sorta di pacificazione in nome del Nazareno è la conferma della validità di quel patto e, al tempo stesso, della sua mancanza di alternative. Se le cose stanno così, ai contraenti centrodestristi del patto e ai loro sopraggiunti alleati, si offre, fra le altre, una carta decisiva da giocare in previsione, appunto, del Quirinale. Dovrebbero sapere che se il patto tiene, l’elezione di un candidato concordato e ovviamente gradito al Premier, dovrà avvenire fin da subito, al massimo alla quarta, quinta votazione. Altrimenti tutto si sfarina, si complica, si sfascia. Un patto degno di questo nome serve appunto a evitare lo sfascio. Che già ce n’è molto, in giro. Potrebbe anche servire a togliere dal colpevole cono d’ombra proprio quell’Antonio Martino che in tutti questi anni ha dimostrato una coerenza, una serenità e una dignità il cui simbolo è stato il grande presidente Luigi Einaudi. Un liberale, non a caso. Come si dice, tutto si tiene in politica, giacché, “simul stabunt vel simul cadent”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10