
Ad un certo punto, dopo il massacro parigino di Charlie Hebdo - e memore che il nostro giornale pubblicò nel 2007, fra i pochi, le vignette danesi col Profeta inturbantato con una bomba - ci siamo messi, col cuore e la mente, dalla parte di Israele, di Netanyahu e degli ebrei a Parigi e nel mondo.
Abbiamo fatto uno sforzo minimo, perché le cose, cioè l’orrenda mattanza, parla(va) da sé. Ma si vede che ad altri parla(va) in un altro modo, forse sottovoce o perché non vogliono ascoltarne la voce. E di che parla questa voce? Parla della strage a freddo, dell’esecuzione in un negozio kosher di quattro parigini, di quattro francesi andati a fare la spesa: erano quattro ebrei integrati nella grande città. La loro voce gridava, come altre volte, come da quella scuola francese dove furono freddati tre bambini, ebrei naturalmente, ma il suono non arrivava alle orecchie dei più, si perdeva, si dimenticava con la sovrapposizione di altre voci. Anche perché quella strage degli innocenti era stata presto dimenticata, come altre.
Ma questa volta, dal luogo dell’ennesimo mattatoio del macellaio alla Coulibaly, quel grido delle quattro vittime, colpevoli di dolo di essere ebrei, è stato raccolto da laggiù, da Gerusalemme, dal Governo israeliano. Il cui Premier ha subito chiarito che il focolare, la patria, la terra di tutti gli ebrei è Israele, Gerusalemme. Apriti cielo! François Hollande, risalito di colpo dalla bassa classifica in cui navigava da mesi, e inveendo quasi in pari misura contro i massacratori “Isisqaedisti” e la Marine Le Pen, ha replicato seccato: la casa degli ebrei francesi è qui, è Parigi, la France, la République. Ciò è pur vero, e la bellissima storica Moschea parigina, dove giustamente si sono recati, è un simbolo di un fertile scambio secolare, di cultura, di dare e avere reciproco. Ma nelle parole del Premier israeliano vi era sottinteso, ma non troppo, il “je accuse” per l’indifferenza per gli eccidi di ebrei nel mondo, per l’ignavia e il diniego europeo sulle questioni presenti, per l’incapacità accidiosa di affrontare politicamente e culturalmente le minacce delle derive dell’islamismo.
La grande marcia parigina, i milioni in piazza con matite alzate, simboli di libertà, l’emozione popolare e internazionale, la commozione, la sensazione che qualcosa di profondo si sia messo in moto, insieme alla storia, ebbene, anche questo c’era e c’è. Non solo perché abbiamo bisogno di eroi, come i morti ammazzati fra cui ebrei e poliziotti, anche musulmani, ma sentiamo come necessaria al nostro faticoso cammino quella spinta spirituale collettiva che nasce dalle tragedie e dalle reazioni sentimentali, nazionali, affettive, religiose che, tutte insieme, richiamano l’appartenenza ad una casa comune, ad un popolo, ad una tradizione, ad una civiltà. Ma, domandiamoci, quella casa di tutti, quella storica comunanza di affetti collettivi e identificatori, è tale e quale per tutti? Anche per gli ebrei francesi e parigini? Questo è il punto dolente. C’erano tantissimi “Io sono Charlie”, ma non spiccavano “Je suis Juif” (Io sono ebreo). La risposta data dal Premier di Gerusalemme è stata ed è chiara, al punto che i quattro morti saranno sepolti in Israele, in una patria, in una casa che è diversa, ma che è la loro, più di quella francese. Un gesto che al di là della scelta politica e giustamente polemica, al di là della sua potente simbologia, travalica il presente e si riallaccia ad un passato che sembrava sepolto e superato, che ci ricorda il tragico dopoguerra e la scia terribile dell’Olocausto, e la riscossa di David Ben-Gurion, l’epopea di “Exodus”.
Siamo dunque tornati al punto di partenza? Siamo costretti a rivivere pagine e capitoli come se il passato non ci avesse nulla insegnato e il presente ci trascinasse indietro, per ricominciare da capo? Questi interrogativi drammatici, direi angosciosi, ci pone la marcia della storia in Francia. Forse la storia si è messa in moto in quest’Europa stanca, declinante e relativista, forse. Ma la realtà, la verità, è più complessa, meno retorica, infinitamente più impegnativa. Perché il terrorismo islamico è mosso da un’idea, da un’ideologia religiosa, da un impulso di distruzione degli altri i cui simboli sono fin troppo evidenti e fin troppo annientati: dai cristiani sgozzati in Medio Oriente dall’Isis insieme a ebrei, yazidi e curdi e infedeli, fino agli stermini quotidiani di un impunito Boko Haram, passando per Libia, Somalia, Yemen... Non solo, ma in gran parte del mondo arabo, illuminato dal faro religioso della potentissima Arabia Saudita armatrice e finanziatrice di assassini in giro per il nostro mondo, Israele e il suo popolo sono già stati cancellati dalle loro carte geografiche, per ora. Non esistono. “Res nullius”, per dire.
Ed è così che nel silenzio pavido, nell’assenza di una strategia di attacco e di difesa dell’Occidente - mancava solo Obama, adesso pentito - di un progetto comune dell’Occidente, nel vuoto di idee e di coraggio di un’Europa che ha rifiutato le sue radici giudaico cristiane, affogati nella retorica in marcia con la quale ci vorremmo lavare la coscienza, la decisione di Israele di confermare ai loro vivi e ai loro morti il luogo certo, sicuro, difeso “perinde ac cadaver”, di una Patria si alza come una voce forte, un esempio di orgoglio consapevole, di una resistenza morale e civile col motto “non praevalebunt”. Ma, al tempo stesso, ci ammonisce, ci avverte, fa risuonare l’ultimo allarme per questa terza guerra mondiale in corso. Non mandare a chiedere per chi suona la campana, essa suona per te.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16