
A Parigi, a Berlino, a Londra migliaia e migliaia di persone si sono riunite spontaneamente per manifestare il loro sdegno per il massacro dei vignettisti e dei giornalisti francesi all’insegna del “je suis Charlie”. A Roma, a piazza Farnese, di fronte all’ambasciata di Francia, di manifestanti se ne sono visti solo alcune decine. Al punto che l’ambasciatrice francese, la signora Colonna, è scesa in piazza per salutare e ringraziare singolarmente i pochi convenuti.
Questa mancata partecipazione ha molte spiegazioni: la pioggia, l’indolenza romana (ma ai funerali di Pino Daniele la folla c’era), l’assenza di una qualsiasi organizzazione dell’evento. Ma la principale è che in Italia di gente disposta a proclamare senza se e senza ma “je suis Charlie” ce n’è decisamente poca. La stragrande maggioranza non si sente sotto attacco dall’estremismo islamico. Pensa che il nostro Paese goda ancora della franchigia assicuratagli da decenni e decenni di accordi segreti stipulati puntualmente dai nostri governi con tutte le organizzazioni, i gruppi ed i gruppetti terroristici della sponda Sud del Mediterraneo. È convinta che la nostra marginalità politica rispetto alle guerre che si combattono in Medio Oriente costituisca un vaccino potente contro qualsiasi possibilità di contagio. Ma, soprattutto, non si sente minimamente impegnata in nessuna battaglia in difesa di valori che la cultura dominante non riconosce come tali o ha già considerato ormai definitivamente decaduti.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il socialista francese convertitosi al pacifismo filonazista Marcel Dèat interpretò lo spirito allora dominante in Francia lanciando il famoso interrogativo: “Perché morire per Danzica?”. Adesso in Italia non c’è neppure chi abbia il coraggio di uscire allo scoperto chiedendosi apertamente: “Perché morire per la libertà d’espressione”. Abbiamo, purtroppo, una stragrande maggioranza non solo di pusillanimi che non oserebbe mai dichiarare apertamente di non avere alcuna intenzione di seguire l’esempio di Stephane Charbonnier e proclamare di essere pronto a dare la propria vita in difesa della libertà. Ma, soprattutto, abbiamo una stragrande maggioranza di intellettuali, giornalisti, politici, opinion leader profondamente convinta che il valore della libertà sia destinato ad essere sempre e comunque subordinato a quello della pace. Una pace ovviamente concepita in maniera politicamente corretta. Che per essere mantenuta può e deve necessariamente prevedere la sottomissione dei propri valori rispetto a quelli chi li propone con l’intolleranza e la violenza.
Questa maggioranza ha inventato il termine “islamofobia” per marchiare a fuoco chiunque osi sottolineare che la cultura, la storia, i valori della civiltà europea sono diversi ed incompatibili con quelli del cosiddetto risveglio islamico. Un risveglio che è tale dopo secoli di passività proprio perché si pone in maniera conflittuale ed alternativa ai valori del mondo un tempo definito occidentale. E questa maggioranza, indirizzata da una cultura politicamente corretta e sorretta da un pacifismo terzomondista della Chiesa del gesuita Bergoglio, è ormai convinta che nei confronti di chi usa le armi per conculcare le conquiste ideali della cultura europea non ci sia altra strada oltre quella di un dialogo temporaneo destinato a tramutarsi presto o tardi in resa. Questa maggioranza non può innalzare il cartello con la scritta “je suis Charlie”. Perché non ama la libertà. È già serva.
Contro questa maggioranza bisogna mobilitare gli spiriti liberi ancora esistenti nel nostro Paese. Non in nome del razzismo o della guerra di religione, ma in nome della tolleranza. Non quella dei pavidi, ma quella che sa reagire sempre e comunque all’intolleranza totalitaria ed illiberale!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18