
È solo a due voci il dibattito sulle norme anti-corruzione che si sta svolgendo in questi giorni. Da un lato c’è la voce dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), che chiede sostanzialmente di realizzare una normativa contro la corruzione in tutto simile a quella anti-mafia.
Dall’altro c’è la voce del Governo, che in linea di principio non si oppone alla richiesta del sindacato dei magistrati ma che rivendica il diritto di poter decidere con il Parlamento senza subire pressioni esterne di qualsiasi tipo. In questo dibattito manca una terza voce. Quella di chi dovrebbe ricordare che in uno stato di diritto ogni azione di tipo repressivo va realizzata nel rispetto delle garanzie dei cittadini. Ma l’assenza di questa voce, che da quando Silvio Berlusconi è stato silenziato per via giudiziaria è diventata totalmente afona, non ha impedito di rendere evidente lo squilibrio esistente tra chi ha ben chiaro l’obiettivo da perseguire e chi ha chiara solo l’esigenza di salvaguardare il proprio ruolo.
La magistratura, sia quella ideologizzata che quella corporativa, punta apertamente ad applicare all’emergenza anti-corruzione quella normativa, che è stata adottata per combattere la mafia e che a sua volta deriva dalla normativa creata a suo tempo per battere il terrorismo degli anni Settanta. Trattare la corruzione come un fenomeno mafioso comporta sicuramente aumentare il ruolo ed il peso oggi già incredibilmente estesi del potere giudiziario. Ed è questo il vero ed unico punto di frizione tra l’Anm ed il Governo. Perché quest’ultimo non si oppone al merito delle richieste dei magistrati. E anzi rivendica di aver già compiuto passi in avanti nella direzione chiesta dalla toghe ponendo Raffaele Cantone, magistrato anticamorra (cioè antimafia) alla guida dell’Authority anti-corruzione. Ma si limita a contestare all’Anm l’invasione di campo sul quel terreno politico in cui si considera l’unico soggetto legittimato ad operare.
La preoccupazione del Governo di frenare l’esondazione dei magistrati è giusta. Ma il rischio di un maggiore squilibrio di poteri assume un valore puramente formale di fronte al pericolo che l’estensione della normativa emergenziale anti-mafia a qualsiasi fenomeno di tipo corruttivo può provocare alla società italiana. Una magistratura trasformata in una generale anti-mafia comporta l’automatica affermazione dell’integrale trasformazione mafiosa del nostro Paese. Il ché può far piacere a chi teorizza da sempre l’esistenza di un difetto di tipo razziale o antropologico degli italiani. Ma crea le condizioni per una sorta di militarizzazione del territorio nazionale, in un crescendo di repressione che non può non avere come effetto la trasformazione dello stato di diritto in uno stato etico ed autoritario.
Serve, poi, imprimere all’Italia il marchio di Paese mafioso per debellare effettivamente il morbo della corruzione e del malaffare? I magistrati ne sono convinti sulla base della loro esperienza, preparazione e cultura. Ma la loro convinzione, pur essendo legittima e rispettabile, è il frutto di esperienza, preparazione e cultura settoriali. Guardare la società con gli occhiali della norma penale impedisce loro di scorgere le cause sociali, politiche, istituzionali alla base dei fenomeni corruttivi. Puntano per mestiere (e per cavalcare l’onda del giustizialismo populista) alla sola repressione. Ma non si rendono conto che reprimere senza rimuovere le cause di fondo della corruzione, cioè lo stato burocratico-assistenziale che per alimentare se stesso deve ricorrere all’illegalità diffusa, significa dare vita ad un regime autoritario che non risolve la malattia sociale ma la rende cronica ed incurabile.
Nel dibattito a due voci sulla giustizia, allora, serve più che mai la terza voce. Quella della ragione, delle garanzie, della libertà!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24