Renzi è un pericolo,   la destra si mobiliti

Finora abbiamo descritto Matteo Renzi come un bugiardo, un arrogante, un cialtrone. Insomma un venditore di fumo che, munito di una buona dose di faccia tosta, ha conquistato un certo numero di elettori i quali, a loro volta, non aspettavano altro che di essere rassicurati sul consolidamento dei loro discutibili privilegi. Oggi, però, alla luce delle deliranti dichiarazioni rilasciate dall’incantatore fiorentino sentiamo di aggiungere un altro aggettivo al già nutrito lessico che la sua sfrontatezza ci ha ispirato: pericoloso. Perché? Semplice a dirsi.

Renzi, nel commentare il voto della scorsa domenica ha asserito che il dato dell’astensione è secondario. Nella sua narrazione, il Partito Democratico comunque ha vinto e quindi governerà l’Emilia e Romagna e la Calabria. Ed è questa l’unica cosa che per lui conta. Tradotto in linguaggio comune significa che la defezione del 60 per cento degli aventi diritto dall’esercizio della sovranità popolare attraverso l’espressione di voto è un fattore non rilevante nella gestione della cosa pubblica. Non merita uno straccio di autocritica per le scelte finora compiute. E per le cose promesse e non realizzate. Al contrario, non gli crea alcun problema il fatto che tante persone abbiano girato le spalle ai partiti. Non importa che oltre settecentomila elettori, che pure avevano votato il suo Pd alle ultime europee concedendogli una significativa apertura di credito, oggi gliela abbiano revocata. Questa si chiama deriva autoritaria.

Pensare, in futuro, di governare il Paese facendo affidamento sul consenso di una ridotta platea di cittadini rinvia a una visione oligarchica della politica che contrasta frontalmente con qualsiasi declinazione della democrazia, partorita nello scorso secolo dall’Occidente. Somiglia di più al sogno intramontabile dei “poteri forti” di affidare le istituzioni nelle sole mani delle classi dominanti, che non hanno mai realmente creduto che non una parte ma l’intera società potesse concorrere al governo della nazione. La democrazia, nella sua accezione liberale, è rappresentazione dinamica di interessi concorrenti. Di tutti gli interessi. Anche di quelli di cui sono portatori i ceti diseredati che hanno tutto il diritto di aspirare a modificare, in meglio, la loro condizione. Renzi non solo si è dimenticato dei “vinti della Storia” ma mostra di non gradire che costoro si facciano sentire. Per lui va bene così. Vota solo il 40 per cento del corpo elettorale? Pazienza! L’importante è che tra loro vi sia una componente stabile, socialmente trasversale, interclassista, che gli assicuri i numeri per vincere. Cosa aspettarsi di diverso se non che l’avvenire dell’azione di governo sarà tutta nel continuare a garantire i garantiti? È evidente che, in una simile prospettiva, coloro che resteranno fuori dai giochi saranno destinati a una progressiva marginalizzazione la quale sarà esistenziale ancor prima che politica. La destra, che ha nel suo Dna, dai tempi del cancelliere tedesco Otto Von Bismarck, la sensibilità giusta verso la “questione sociale”, deve farsene carico con grande sollecitudine prima che l’inevitabile momento dello scontro si trasferisca dalle aule parlamentari, luoghi sacri della vita democratica, al simulacro per eccellenza, nell’immaginario collettivo, dell’universo protestatario: la piazza.

Cosa vuole questo Renzi? Aspetta che il sangue scorra a fiumi per le strade? Vuole la guerra dei poveri mandata sul web? È lo scontro sociale che cerca? Si sbrighi la destra a fare coming out, si stenda pure sul lettino dello psicanalista se crede, ma ritorni al più presto a fare il proprio mestiere. Ritrovi la sua gente e le dimostri che la democrazia non è finita. La storia non è finita, come avrebbe voluto Francis Fukuyama, a maggior ragione non è finita la politica, come vorrebbe Renzi. Sono tempi eccezionali perché è in ballo la sicurezza della nazione. E nessuno, giovane o vecchio che sia del centrodestra, può disertare l’appello. Sarebbe tradimento.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26