
Il problema posto dall’emergenza provocata dalle alluvioni che hanno devastato Genova, la Liguria ed una parte delle regioni settentrionali del Paese non è la cementificazione ma chi ha imposto, gestito, programmato e realizzato la cementificazione del territorio.
Se si vuole affrontare l’emergenza sbagliando la causa che l’ha provocata, non si fa altro che creare le condizioni per una futura e più grave emergenza. Cioè consegnare l’azione di indispensabile risanamento del territorio nelle mani degli stessi responsabili della devastazione. Con l’automatica conseguenza di aggiungere al disastro attuale il sicuro ed inevitabile disastro prossimo venturo. E, naturalmente, di sperperare e gettare al vento le enormi risorse che servono per risanare non solo Genova, la Liguria, le regioni settentrionali colpite dalle bombe d’acqua delle ultime settimane ma l’intera penisola, isole comprese, colpita negli ultimi decenni dalla più immane devastazione mai avvenuta nel corso dei millenni precedenti.
Esiste un solo responsabile di questa devastazione. Che è l’autonomismo incontrollato (e quindi irresponsabile) figlio, a sua volta, di un’ingenua concezione di come si debba democratizzare una società abituata da secoli alla subordinazione a poteri non democratici. L’incredibile rischio che si corre in questa fase di crisi, che non è solo quella economica internazionale ma che è anche e soprattutto quella dell’esplosione delle carenze strutturali interne accumulate negli ultimi decenni, è che per la fretta e per la pressione di un’opinione pubblica aizzata dai media politicamente corretti, si ripetano i soliti errori scambiando l’effetto per la causa e moltiplicando i danni a dismisura.
Il sistema istituzionale delle autonomie impone attualmente di assegnare alle Regioni la responsabilità dei piani di risanamento e la possibilità di gestire i giganteschi fondi necessari per la messa in sicurezza del territorio. Ma l’esperienza ha insegnato che delegare alle amministrazioni locali senza controlli adeguati il compito di gestire risorse importanti, significa esporre le stesse amministrazioni ai condizionamenti, spesso criminali ma sempre lobbistici, imposti dall’esigenza prioritaria di raccogliere comunque il consenso necessario alla rielezione. La cementificazione del territorio non è il frutto di una qualche scelta ideologica o di un malinteso modernismo delle vecchie classi dirigenti della Prima o della Seconda Repubblica. È il prodotto naturale di interessi provenienti non solo dai “palazzinari” e dai politici corrotti, ma anche e soprattutto da quelle popolazioni che avevano interesse diretto e personale ad una cementificazione che per loro voleva dire non speculazione ma abitazione. Nessuna amministrazione locale, proprio per il rapporto più stretto ed immediato con il proprio territorio, ha mai potuto ignorare le richieste della propria popolazione. Dove la cultura dei cittadini indirizzava le richieste verso una gestione accorta e sensibile alla difesa del paesaggio, si sono evitate eccessive nefandezze. Ma dove questa cultura mancava si è verificato il massimo della speculazione, dell’abusivismo e della corruzione.
Non basta, allora, chiedere interventi immediati per risalvare la penisola. È indispensabile pretendere che qualunque piano di risanamento ribalti la regola secondo cui le risorse sono gestite dalle amministrazioni locali e lo Stato, al massimo, cerca di controllare. Magari attraverso la sola magistratura. E stabilisca la regola nuova che lo stato centrale programma e gestisce e le amministrazioni locali controllano che le risorse vengano effettivamente impiegate a beneficio del territorio e dei suoi abitanti. Insomma, se si vuol salvare il Bel Paese bisogna riformare il sistema delle autonomie locali. Partendo dall’abolizione delle Regioni, fonte di ogni sperpero e di ogni corruzione!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26