Anni '80: se i numeri   hanno la testa dura

Ricordate il tormentone tipo soundtrack dei trascorsi dieci, quindici, venti anni sulle note del debito pubblico anni Ottanta? E ricordate come e perché, mettiamo la Lega bossiana, inveiva con tanto di corni (in testa) e cappi sventolati contro l’immonda Prima Repubblica responsabile di aver mostruosamente aumentato il debito pubblico partitocratico (sic!)? E ricordate... Basta, per carità. Ma un ricordo, l’ultimo, in ordine di tempo, va pure rammentato. E corretto come si deve giacché trattasi di gravi errori: perché del Corriere della Sera e perché ripetuti.

Il “Corrierone” come lo chiamiamo affettuosamente noi meneghini, ha pubblicato domenica scorsa un ampio articolo sul debito pubblico in generale e sul Governo Craxi (1983-1987) in particolare. Con accuse nei suoi confronti. “Comme d’habitude”, diciamo. Un articolo che contiene non uno ma due gravi errori, due dati, due cifre, per non dire del resto che, tuttavia, appartiene alla legittima critica. Ma non vogliamo replicare noi a questi errori non soltanto per una scusa da “conflitto d’interessi” peraltro inesistente, soprattutto quando si parla di dati e numeri incontrovertibili, ma per offrire la duplice lettura, da due diverse fonti, in contrapposizione al “Corriere”.

Apprendiamo e trascriviamo da un non dimenticato articolo di Lucia Romeo su “Italia Oggi”, quotidiano di limpidamente affidabile impostazione, che prima che il Governo Craxi entrasse in funzione (estate 1983) la produzione industriale era scesa del 7 per cento. Le quotazioni azionarie crollavano, l’inflazione sfiorava il 17 per cento e il deficit di bilancio oltrepassava i 50mila miliardi di lire. Ebbene “nel periodo 1983-1987 l’azione di quel Governo, attraverso momenti difficili come la battaglia sulla scala mobile (decreto di San Valentino del 1984) e altre scelte importanti, ottenne risultati che l’allora Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi riassumeva così: la produzione industriale e soprattutto la domanda interna hanno accelerato la crescita al 2,6 per cento della prima e del 3,2 della seconda, il fabbisogno statale è stato contenuto entro i 110mila miliardi, al netto degli interessi e delle regolazioni di debito pregressi è sceso da 47mila miliardi a 36mila miliardi di lire”.

Non solo, ma va aggiunto che l’inflazione fu piegata portandola al 4 per cento, si puntò al risanamento dell’economia reale col ritorno al profitto delle imprese e al risanamento finanziario, con una pressione fiscale stabilizzata attorno al 36,7 per cento. Il fatto che tuttavia, oggi non viene ricordato, o non si vuole ricordare, è che le società internazionali di “rating”, le stese che oggi viviamo come un incubo ad ogni pronunciamento, attribuirono al nostro Paese la valutazione massima, la tripla A, portandoci nel consesso dei paesi più industrializzati. Fin qui l’esposizione di “Italia Oggi”.

L’altra voce che vogliamo ascoltare e citare è quella di Mauro Del Bue, un giornalista tanto scrupoloso quanto obiettivo, che sull’“Avanti!”, che dirige, del 5 novembre ha respinto al mittente con argomenti e cifre, cioè con i numeri, le accuse del “Corriere”, a proposito del debito pubblico e del suo rapporto col prodotto interno lordo (Pil), donde, secondo il quotidiano milanese, le responsabilità craxiane per quel rapporto salito al 105 per cento nel 1992. Ora, come ha fatto rilevare il direttore dell’“Avanti!”, e come è scritto “per tabulas”, cioè nella storia italica, il Governo Craxi era finito ben cinque anni prima, nel 1987, anno in cui il rapporto debito pubblico/Pil era dell’89,11 per cento. Una bella differenza, vero? E tanto per chiarire, se nel 1987 il debito pubblico era di circa 470 miliardi di euro, nel 2014, nostro anno di (dis)grazia è di oltre 2100 miliardi. Quadruplicato, bingo! “Last but not least”: negli anni Ottanta, così criticati e infamati dai ben noti e dal leghismo di lotta e di governo, il Pil era cresciuto del 27 per cento circa. Negli anni Novanta, con l’avvento della salvifica Seconda Repubblica è sceso di ben dieci punti, al 17 per cento, nei primi dieci anni del 2000 a solo il 2,5per cento e in questi ultimi tre l’Italia è caduta in recessione. “Anche questo dato va attribuito a Craxi?” Bella domanda con risposta addirittura ovvia, se non fosse che il conflitto fra numeri e idee plurali è da noi inficiato da molti, troppi pregiudizi che sostituiscono la verità con una manipolazione che, a sua volta, tende a riscrivere la storia “ad usum delphini”, all’uso cioè del proprio pregiudizio.

Una considerazione finale. Ben sappiamo che dietro l’angolo di queste nostre riflessioni si nasconde sempre l’ombra tentatrice della nostalgia la quale, come ognun sa, si nutre spesso più di omissioni che di ricordi. Per questo abbiamo rammentato dati e cifre che non dovrebbero mai essere oggetto di dispute ideologiche, mentre debbono essere un tema di critica e autocritica per gli errori commessi, evitando l’attrazione fatale del “come eravamo belli allora” e del mitico “si stava meglio quando si stava peggio”.

Del resto, i numeri sono come i fatti: hanno la testa dura. Perciò il nostro vorrebbe essere un contributo al ricordo, alla memoria come strumento di crescita, di maturazione, di coesione. Contro la smemoratezza, contro un fatalismo che spalanca il baratro di un declino inarrestabile cui va invece contrapposto il recupero della memoria. E della sua condivisione. “Non della sua obliterazione - rubiamo un prezioso stimolo dal libro di Claudio Martelli “Ricordati di vivere” - che invece la Seconda Repubblica ha voluto imporre, e proprio per questo, anziché superarla, ha replicato in peggio la Prima, in tragica fase, bruciando vent’anni di vita pubblica e un’intera generazione... Senza memoria non possiamo misurare quanto sia lungo il nostro ritardo... Siamo fermi a venti, trent’anni fa. La decadenza non è un destino, è una scelta che abbiamo compiuto, rinvio dopo rinvio... Tutti sanno ma nessuno ricorda”. Appunto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20