Renzi, un socialista   a sua... insaputa

Sono io che non ricordo bene o in molti circoli del Partito Democratico (Pd) spiccano, fianco a fianco, i poster di Aldo Moro e di Enrico Belinguer? E a Maglie una statua di Moro con “L’Unità” sotto braccio? Sono ancora io che, di nuovo non ricordo bene, o in recenti talk-show la ministra Maria Elena Boschi ha dichiarato di preferire Amintore Fanfani a Berlinguer? E, “last but not least”, è vero o non è vero che Matteo Renzi non solo si (auto)proclama socialista ma è parte integrante del socialismo europeo al punto da essere stato nominato su iniziativa di François Hollande e dei socialdemocratici tedeschi, ma non solo, presidente di turno europeo?

Mettete tutte queste notizie in fila e comincerete a capire come per il nostro Matteo il concetto/idea di socialismo sia alquanto aleatoria, mutevole, per non dire confusionaria e, soprattutto, adattabile al suo gioco preferito (dopo il subbuteo, si presume): il gioco delle tre tavolette. A volte anche quattro.

Matteo è, per così dire, socialista a sua insaputa. Si fa presto a dire “siamo socialisti” soprattutto quando conviene elettoralmente, specialmente in Europa. E, subito dopo, si fa in fretta a ignorare la storia del socialismo italiano, specialmente in Italia. A cancellarla, a seppellirla. Praticamente dal suo inizio, da Filippo Turati in giù, passando per Pietro Nenni, Riccardo Lombardi, Giuseppe Saragat, fino a Bettino Craxi, soprattutto Craxi il cui nome mai, dico mai, è stato pronunciato da Renzi.

Matteo, del quale una frase su due inizia con la parola “riformista” riconosce, “bon gré mal gré”, un solo leader della sinistra, quel Berlinguer che appena sentiva la parola riformista veniva colto da violenti dolori al basso ventre. Disturbi non infrequenti negli anni ‘70 in gran parte della sinistra e della “intellighenzia”, della mainstream culturale. Acuiti sempre più dolorosamente dall’avvento di Craxi alla guida del Partito Socialista Italiano (Psi), nel 1976, che della parola riformismo seppe fare un programma, un progetto, una prospettiva alternativa all’imbacuccato marxismo-leninismo alla sua superiorità. Peraltro, si richiamava Berlinguer. Il riformismo era impronunciabile. E Craxi un eretico.

Oggi il termine riformista è usato e abusato, ma il nome di Craxi è impronunciabile, non si può dire, Matteo non proferisce. Si chiama “damnatio memoriae”. Ne abbiamo scritto più volte, ma da qualche giorno, su “Il Foglio” da parte di Guido Vitiello e sul “Corriere della Sera” da parte di Pierluigi Battista, i ripetuti vuoti di memoria renziani a proposito dell’ultimo leader socialista morto - lasciato morire - in esilio, vengono catalogati per quello che sono: il frutto, appunto, di una condanna della memoria. La quale “damnatio”, peraltro, non marchia a fuoco altri nomi, per esempio democristiani doc, tipo Fanfani ché, anzi, la sua figura viene anteposta a quella di un Berlinguer la cui immagine votiva è stata, e a volte lo è ancora, collocata a mo’ di icona sull’altare votivo del Pd, quando non addirittura nei proclami elettorali di Gianroberto Casaleggio, la cui cyber-fantasia per gli slogan sembra più frutto di gigabyte impazziti che di ponderati studi sulla figura del leader sardo comunista. Il cui partito non ha votato per lo statuto dei lavoratori voluto dal Psi di Pietro Nenni (il nonno del jobs act) e infatti Matteo Renzi l’ha rinfacciato ai suoi “tanti nemici tanto onore” di Pd e Cgil. Incappando volutamente in un’amnesia, definita assurda da Di Battista, e noi vi aggiungiamo, sia pure laicamente, blasfema, giacché per Renzi non fu tanto il Partito Comunista Italiano (Pci) a non votare quello statuto ma l’intera sinistra, essendo il Pci l’unica e vera sinistra della storia italica.

Gli altri non c’erano. Nella sua deriva storica solipsistica, Renzi è convinto che i socialisti non solo non esistano oggi, ma non esistessero fin da allora e, se c’erano, non appartenevano alla sinistra. Non staremo qui a ricordare le battaglie tipicamente laico socialiste di allora,sul divorzio, aborto, giustizia, welfare. Per carità. Ma questi buchi neri nella memoria renziana sono ancora più preoccupanti quanto più si avvicinano nel tempo, fino a quello di Bettino Craxi, la cui azione politica è stata ed è iscritta nel dna riformistico tanto da imprimere una forte accelerazione alla modernizzazione del Paese riuscendo a tirarlo fuori da una gravissima crisi (inflazione a due cifre, crollo della borsa, caduta della produzione industriale, disoccupazione, code terroristiche, ecc) grazie anche a quel decreto sulla scala mobile di San Valentino (1984) contro cui si batté il Pci di Berlinguer volendo un referendum che perse clamorosamente nel 1985: piazze piene urne vuote, diceva il grande vecchio Pietro Nenni. Nenni, chi era costui? Renzi, impara l’arte (della storia) e mettila da parte. La “damnatio memoriae” lasciala ai regimi, e alle foto comuniste dove, come in una memorabile nella Piazza di Praga, venne cancellato l’eroe della primavera, Alexander Dubček, cacciato dai tanks sovietici, e ritornato anni dopo, quando crollò il muro.

Come ricordava spesso Craxi, in milanese, “la roeda la gira”. La ruota gira. Con la storia non si scherza, altro che “damnatio memoriae”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:25