Una domenica bestiale: Genova-Circo Massimo

Come faceva quella canzone? Ah sì, “che domenica bestiale, la domenica con te!”. Che domenica l’ultima, passata da noi davanti alla televisione, da Beppe Grillo nei suoi ludi circensi massimi e dai genovesi travolti dal fango.

Che domenica! E che storie, di Grillo e di Genova, legati dal legame natio eppure così distanti, quel giorno, così alieni l’uno dall’altra come se il tempo e la storia avessero prodotto una cesura, chiamata politica. Sì, perché la politica è la fonte della scissione fra i due che soltanto la potenza del racconto delle immagini hanno parallelizzato, unendoli bensì nello schermo, ma spiegandone con spietata voluttà immaginifica la vera “substantia” che li accomuna, il suo più autentico motivo: la vendetta della politica.

Grillo se ne stava in cima ad un gru rimembrando il Duce (Benito Mussolini) in cima alla torre della Fiat, simboli entrambi della potenza politica ed economica, con la differenza che Mussolini enfatizzava il coronamento di una quindicennio di potere, fra gli operai plaudenti - la sua politica - mentre il boss pentastellato celebrava, con la mimesi indubbia del suo mestiere, un anniversario di occasioni perdute, un sommario di appuntamenti mancati, ovvero la sua (non) politica.

E così, in contemporanea, il tempo domenicale che Enrico Mentana aveva immolato sull’altare grillino, veniva brutalmente dissacrato dalla furia del torrente Bisagno, dall’esplosione dei torrentelli lasciati al loro destino di killer, e lui, il povero sindaco Marco Doria, spaesato e allibito fra le cupe rimostranze dei dannati del fango. Anche l’aristocratico primo cittadino celebrava il feroce boomerang del contrappasso, di questa legge che non perdona e che si presenta puntuale ogni volta che una missione viene mancata, ogni volta che si tradisce un mandato: è la politica che si vendica. Grillo parlava, sbraitava, urlava, minacciava, scendeva dalla gru saliva sul palco poi scendeva fra i gazebo, come a misurarne la febbre di partecipazione, in realtà a verificare e contenere le non più sotterranee tensioni, le non più nascoste divaricazioni. Non c’era la propulsione virulenta della primordiale belluinità, fangosa non meno del “suo” Bisagno ma non meno travolgente la casta allibita del 2013.

C’era questa ripetuta epifania del se stesso come unico capo indiscusso, che tuttavia si portava dentro una nota d’incertezza, una vena d’inquietudine, di un oscuro timore bisognoso di cure. Che sono arrivate, certo, ma è singolare che di questi applausi, di queste riconferme, di questi sì di un popolo questa volta meno numeroso e meno appassionato, ne abbia avvertito la necessità ogni giorno, ogni volta, ogni passeggiata sul palco “Il padrone sono mè” era il messaggio sotteso, che rilanciava la palla dell’ostruzionismo a oltranza in mezzo ai gazebo collegati nel web da questa parola d’ordine, simbolo a un tempo di una protesta fuori del tempo e di una politica condannata al fallimento. E di uno scialo senza precedenti.

Nemmeno il sospetto che 150 parlamentari sono “la politica possibile” lo ha fermato sull’orlo dell’ennesima velleità, e nemmeno il senso della reale portata del proprio ruolo l’ha trattenuto dalla discesa in una spirale in fondo alla quale persiste il vuoto, l’inanità di una presenza, l’inutilità: la non politica. E, per di più, nessuno di questi “cittadini” ha avuto il coraggio di spiegare la fondamentale legge che tutti i bambini ormai conoscono: il vuoto che lascia la tua non politica è il nuovo, ripetuto regalo proprio a quel Premier e a quella Peste Rossa da annientare. Un bersaglio fallito già nelle ridicolaggini degli streaming ed ora strapazzato con minacce destinate a rovesciarsi nel loro opposto, ovvero in un nuovo, incredibile assist a Matteo Renzi, l’omaggio da parte di un Circo Massimo senza obiettivi, senza progetti, senza una visione del paese che non sia l’uscita dall’euro, una bestialità che persino i bambini, rieccoli, respingono come una barzelletta che non fa ridere.

Che domenica bestiale! E che spettacolo devastante a Genova dove nel mucchio delle auto ammonticchiate come trincee si aggiravano uomini e donne rabbiose, cittadini sperduti eppure non rassegnati, ma aggrovigliati, come le auto, dentro un muro di dolore e di protesta a cui il povero Doria non poteva sottrarsi.

Cosicché, alle immagini di un sindaco sballottato da una contestazione all’altra si sovrapponevano quelle del suo predecessore nelle sue identiche condizioni, con la differenza che Doria aveva trionfato sulle macerie di quel fallimento. Anche a Genova la legge del contrappasso ha colpito, inesorabile, implacabile. Ha centrato in pieno la superbia dei sindaci diversi, nuovi, frutti di una stagione di prosopopee spremute dalla leggendaria società civile, e vestiti d’arancione. Buoni a tutto e capaci di niente. Sono quelli ai quali il sublime Buttafuoco dedica la magistrale pennellata del “ditino sempre alzato... buoni per qualche aperitivo”.

Nel volgere di qualche anno la politica si è vendicata dei Luigi de Magistris, degli Antonio Ingroia e ora tocca al primo cittadino di Genova. Come se non fosse bastato il loro archetipale Antonio Di Pietro che, sfidando ogni senso del ridicolo (e della storia) si candida sindaco di Milano. Tempestivamente, la locale Protezione civile ha diramato l’allarme di massima allerta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:25