I dissidenti del Pd <br / > contro il Renzi-Putin

Non è stata affatto una passeggiata trionfale quella che Matteo Renzi ha compiuto nella sua ultima trasferta europea. Sarà pure vero che il suo astro ha eclissato quello del presidente francese, François Hollande. Ma è ancora più vero che la considerazione da lui acquisita presso gli altri governanti Ue per aver ottenuto il quaranta per cento alle elezioni europee di maggio non è riuscita a smuovere di un millimetro la preoccupazione generale per l’altro numero che segna in maniera indelebile la posizione dell’Italia in Europa e nel mondo.

Si tratta di quel 135 per cento del Prodotto interno lordo, pari a più di duemila e oltre duecento miliardi di debito pubblico, che fanno del nostro Paese il secondo fra quelli più indebitati dell’Ue e che, a dispetto del numero di Renzi, lo inchiodano al rispetto di quel limite del 3 per cento imposto dal Fiscal Compact, oltre il quale c’è solo nuovo debito e possibile default. La consapevolezza che l’apertura alla crescita fatta dalla Merkel non comporta per l’Italia alcuna possibilità di fare altro debito, ha spinto il presidente del Consiglio a sottolineare come da adesso in poi l’unica azione per la ripresa che può essere compiuta è quella delle riforme interne.

Ma è proprio questa consapevolezza, che non è solo di Renzi ma dell’intera classe politica, a trasformare la discussione sulla riforma del Senato, dell’Italicum e del Titolo V, in un momento decisivo per il futuro del premier e della sua maggioranza. Renzi gioca la sua partita puntando proprio sull’argomento che senza riforme non ci potrà essere alcuna crescita. Ma i suoi avversari, soprattutto quelli presenti all’interno del Partito Democratico, capiscono perfettamente che le riforme di Renzi non servono solo a creare le condizioni per la ripresa ma puntano anche (e forse soprattutto) a consolidare in maniera irrevocabile il potere dello stesso Renzi sul partito, sul Governo e sull’intero Stato.

E sembrano convinti che la partita delle riforme sia anche la partita per la loro sopravvivenza politica. Non a caso proprio dall’interno del Pd, in particolare da quell’area dalemian-bersaniana che fino ad ora è rimasta estranea allo scontro tra il gruppo Chiti-Mineo ed i renziani, è partita l’accusa al premier di puntare a diventare il Putin italiano attraverso riforme istituzionali fatte a misura del segretario del partito che è anche capo del Governo. Renzi come Putin, allora? Certo, un Senato declassato ed una Camera formata con l’Italicum solo da fedelissimi del premier, rende credibile l’accusa.

Ma, prima ancora di prospettare un inquietante scenario futuro, apre un esplosivo scenario immediato. Quello che lo scontro tra fazioni opposte del Pd, tra renziani arrembanti ma minoritari negli attuali gruppi parlamentari ed antirenziani a maggioranza nelle assemblee parlamentari ma a rischio di definitiva rottamazione, diventi esplosivo nei prossimi giorni coinvolgendo fatalmente il resto della maggioranza e le forze dell’opposizione. Fino all’ultimo vertice europeo si pensava che il momento della verità all’interno del Pd e della coalizione governativa dovesse arrivare alla fine del semestre italiano di Presidenza Ue.

Ora tutto cambia. Se i bersaniani partono all’attacco accusando Renzi di voler diventare il Putin italiano, i tempi si accorciano ed il momento della verità arriva subito. Perché di fronte al rifiuto dei dissidenti interni di votare le riforme per non dare vita ad un regime autocratico ed autoritario, Renzi non può che giocare la carta delle elezioni anticipate. Da celebrare con l’Italicum, sempre che, ovviamente, continui a reggere il Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi!

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 16:30