Chi chiederà scusa <br / > a Rosy Mauro?

Già, e adesso chi le chiederà scusa? Chi sentirà la necessità, l’obbligo (se non morale, almeno civile) di rivolgere alla Rosy Mauro un pensiero, seppur tardivo, di pentimento? E chi la ripagherà dell’autentico massacro mediatico-politico inflittole? Già, chi?

Sento in giro vocine con quel manicheo “se lo meritano, se li sono cercati, i guai, i leghisti”. Ripensando al “celodurismo” d’antan rabbioso dentro un giustizialismo manettaro col cappio al vento. Già, ma che c’entra? Forse, dico forse, c’entra nella misura in cui anche e soprattutto nel suo partito, anche e soprattutto nella sua vicenda, le voci solidali, le parole di vicinanza sono state e sono talmente fievoli da sembrare addirittura assenti. Chi ha difeso il nome della Rosy Mauro? Ecco, il silenzio degli amici e il voltarsi dall’altra parte. La parola “sconosciuta!” che compare di colpo a segnalare un distacco. Ma soprattutto una paura.

È la sindrome di chi ha la coda di paglia dentro e fuori la politica, ed è anche il segno inconfondibile di una cultura che se n’è andata, forse per sempre. La cultura del garantismo. Ne sa qualcosa il nostro Diaconale con gli sforzi quotidiani dell’indispensabile “Dreyfus” che è bensì un Tribunale, ma specialmente uno specchio riflettente la politica e la società: dell’Italia, da Enzo Tortora in poi, da trenta e più anni. Intendiamoci, il caso della Mauro è ben diverso, rientra in quel lunghissimo tunnel avviato nei primi anni Novanta e che venti e più anni dopo non sembra mostrarci una luce in fondo al tunnel. Ma il tunnel è tanto più buio quanto più l’insieme complessivo del “sociale italiano” stenta a rendersi conto che vedremo la sua fine soltanto riaffermando i principi delle garanzie della persona, di qualsiasi persona, compresa quella che fa politica, difendendo il suo, il nostro, “habeas corpus”.

La Lega può essere presa a simbolo della legge del contrappasso, basta osservare la parabola di Umberto Bossi e figli. Ma sarebbe troppo facile e troppo comodo fermarci ad una simile tappa, ancorché esemplare, giacché il percorso che abbiamo davanti è ben arduo e ben fitto di colpe e responsabilità. Il Partito Democratico ha ancora pesanti debiti nei confronti della incultura giustizialista. Lo stesso partito del Cavaliere è sembrato come percorso dai brividi dell’indifferenza se non del silenzio, a proposito di riforma della Giustizia. È solo un’impressione, ha chiosato qualcuno.

Ma l’impressione è pur sempre qualcosa che ci parla di altro, ci racconta delle difficoltà culturali, prima ancora che politiche, nell’affrontare il più grande e il più grave dei problemi di questi anni. Del resto, non era un’impressione il lungo silenzio (davvero simile a un crudele long, long goodbye) sul caso Scajola e nemmeno su quello dell’ex Governatore del Veneto e attuale parlamentare in attesa di arresto, e non solo. E guai a chiedersi o a chiedere perché si dovrebbe procedere all’arresto di un parlamentare: che fine farebbe l’uguaglianza di fronte alla legge! Già, l’uguaglianza. Ma l’arresto, per chiunque, non dovrebbe avvenire dopo un’inchiesta compiuta, un processo regolare coi suoi gradi di giudizio? Non si vuole con questo aggiungere al termine silenzio l’aggettivo “colpevole”.

Si sa, la politica si distrae, si stanca, si lascia fuorviare dall’immancabile “maiora premunt”, tipo le riforme. Ma non è forse quella della Giustizia la “riforma delle riforme”? A che punto siamo? Che ne è? Che ne sarà? La cultura del garantismo ci riguarda tutti, indistintamente; ma la sua qualità, la sua forza, la sua raison d’etre, consiste nel trasformarla in una costante, in una certezza. Di certo riscontriamo la fatale continuità di una pratica mediatico-giudiziaria-politica che non ha mai smesso di azionare il suo tritatutto. Il caso Tortora è stato una sorta di tragico starter nella corsa dentro il tunnel. Che sembra non avere mai fine…

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 17:08