Milioni di cittì   grazie alla tivù!

Tutti concentrati sul logos (e ho detto tutto!) di Mario Balotelli. Ci siamo dimenticati di una variabile, assai poco impazzita, che si chiama televisione. Anche se perfino quell’autogoal (è proprio il caso di dirlo) del milanista – apprezzata l’arringa di Adriano Galliani contro la tesi risibile, anche prandelliana, del capro espiatorio – recupera alla televisione quel ruolo onnivoro onnipresente, e dunque imprescindibile culturalmente che ha via via assunto. Ai Mondiali di calcio, certo, ma non solo. E Il fatto è che la televisione ha anticipato – ovviamente – le peculiarità della rete la quale, a sua volta, rischia di sommergere la tivù, salvo un dettaglio: che la integra e, interagendo, spiega sempre meglio l’effetto che ha fatto l’elettrodomestico più amato del mondo sul mondo su di noi.

Nonostante il disastro azzurro, i Mondiali di calcio hanno confermato (di nuovo) quella peculiarità televisiva che consiste nella ripetitività, a sua volta derivata dalla leggendaria moviola. La tivù (e lo sanno fin troppo bene quelli di Blob) è un Blob fluttuante, è una moviola indefessa, è un recall, un rewind ed è pure l’archivio, cioè la storia (cioè le Teche). Con tutto questo, fatto frullare ben benino, ecco che ci troviamo tutti all’esame e, contemporaneamente, ci sentiamo professori, sediamo in cattedra e diamo i voti. La televisione ci ha insegnato due o tre cosette sul calcio – e sulla vita – che va rivisto e rivisto ancora, e anatomizzato, criticato, riflettuto e infine giudicato. La moviola è la molla del nostro apprendimento e al tempo stesso diventa lo strumento di penetrazione di un giudizio che ci ha trasformati in 60 milioni di commissari tecnici, ma privi sostanzialmente di tifo, alieni dalla superficialità, distanti dalle ingiurie.

Lo spettatore, a milioni nelle piazze dominate dai grandi schermi, ha subito una mutazione in meglio, ha imparato non soltanto come si assiste ad una partita ancorché del cuore ma come si gioca a calcio. Come giocano a calcio, per converso, come giochiamo a calcio nel campionato. È un dato di fatto ed è un grande merito non solo, o non soltanto, perché il popolo del pallone si sta faticosamente emancipando dai cascami della tifoseria nazionalistica (non nazionale, che ci vuole sempre e comunque e di cui la propria bandiera è simbolo identitario), ma soprattutto perché consente di elaborare le leggi eterne dello sport, riservate, una volta, ai suiveur, ai professionisti, agli happy few addetti ai lavori e alla penna illustratrice.

Non solo, ma lo stile nuovo del linguaggio calcistico in molte trasmissioni specializzate, basti pensare al tiki-taka di Italia 1 e alle collaterali riflessioni di questi giorni sulla nostra sconfitta, ha introdotto la secchezza del linguaggio non escludente il giudizio di merito, mixato alla velocità della parlata cui le immagini in replay fanno come da abbecedario mosso e vivente di una lezione. Siamo diventati più adulti ma anche più scaltri, più preparati ma anche più severi. Contestualmente, il senso della lezione ha pervaso di sé e dei suoi autolimiti culturali gli atteggiamenti per cui le battute goffe e gratuite di un Balotelli vengono assorbite come uno sfogo da ragazzotto viziato, sorvolando quasi sull’excusatio non petita sui “bravi fratelli africani” che, in altri tempi, avrebbe dato la stura ad un teatrino di bassa Lega.

Cosicché, i sessanta milioni di cittì davanti ai teleschermi hanno avuto persino pietà di un’inesistente quanto strapompata Nazionale, non infierendo nemmeno sul vero “colpevole” del disastro, quel Cesare Prandelli che s’era promosso ministro della Nazionale se non (addirittura) vice di Napolitano, grazie soprattutto al cattivo genio della retorica italica, fortunatamente in ritirata grazie alla tv. Ma, se abbiamo imparato molto del calcio mondiale, ne deriva che il giudizio su quello nazionale è francamente impietoso. Le società di calcio hanno colpevolmente dimenticato i loro vivai, che restano deserti e desertificati. I presidenti cercano in genere di fare soldi e guardano ai diritti televisivi; già, la tivù ha la sua legge del contrappasso o dell’imperialismo: vuole tutto lei, a tutte le ore, fregandosene delle abitudini consolidate. Ma la tivù non è automatica, non agisce da sola, è diretta dall’homo homini lupus, quello che sta a Wall Street, dove il denaro non dorme mai, specialmente in questo tipo di calcio all’italiana. È il rovescio della bella tivù che ci consente di fare il nostro personale palinsesto e non è colpa sua se le società la pretendono e la preferiscono al posto della stessa ragione d’essere della squadra, cioè il pallone, e quelli che lo prendono a calci per mandarlo nella rete avversari. In più, e in peggio, gli stadi italiani sono vecchi e scomodi. E, per soprammercato, c’è un morto a causa del calcio: Ciro Esposito.

La lezione che ci viene dal Brasile è anche e soprattutto la compostezza negli stadi, la presenza di famiglie, la gioia di genitori, la frenesia gioiosa e musicale di bambini e belle ragazze. È lo spettacolo per tutti che ha escluso, in tutto il mondo, violenza, curve sud, agguati, gennylacarogna, criminalità. E da noi? Da quanti anni stiamo dicendo queste cose? E quanti ministri degli Interni, da Maroni ad Alfano, hanno lanciato immaginifiche tessere del tifoso, rigorosi tornelli, proclami muscolosi, grida manzoniane contro i bravi in agguato fuori e dentro gli stadi? Proposte sistematicamente ignorate e inutili, salvo le fatiche, i rischi, la presenza e i sacrifici delle nostre forze dell’ordine. E tuttavia... Non tutte le sconfitte vengono per nuocere. Trasformare l’anno zero del calcio italiano in un’occasione di riscatto può essere una lezione. Anche di stile.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24