
Non basta far sparare dai media grandi e piccoli che l’imputato ha preso una tangente di un milione all’anno per cinque anni di seguito. E non è neppure sufficiente far seppellire l’imputato stesso dall’accusa, sempre portata dai giornali e dalle televisioni, che ha nascosto all’estero un capitale da cinquanta milioni di dollari. È necessario che alle cosiddette prove mediatiche corrispondano delle prove concrete, capaci di eliminare ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato. E se queste prove non ci sono o risultano essere solo qualche supposizione o qualche intercettazione confusa, il ragionevole dubbio di colpevolezza si scioglie come la neve al sole e lascia al suo posto il dubbio che non ci sia alcuna colpevolezza. O, peggio, che la presunta colpevolezza, non potendo essere confermata dai dati oggettivi conseguiti dalle investigazioni, possa essere ricercata ad ogni costo attraverso una strada diversa. Quale?
La vicenda di Giancarlo Galan è fin troppo illuminante. Indica in maniera inconfutabile che non avendo trovato gli inquirenti la pistola fumante della sua responsabilità nella vicenda delle tangenti del Mose, hanno deciso di ricercarla attraverso la solita strada della carcerazione preventiva, tesa a favorire quella confessione di colpevolezza che fa superare d’incanto ogni difficoltà nelle indagini.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. La pratica della carcerazione preventiva resa particolarmente afflittiva da un’incessante e violenta gogna mediatica è ormai più che diffusa. Viene applicata dagli inquirenti anche in un caso completamente diverso come quello di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino della piccola Yara Gambirasio. Ovviamente nella speranza che il pentimento del recluso possa supplire ai dubbi ed alle incertezze suscitate da una prova sul Dna non suffragata da altri e più illuminanti indizi.
Ma per Galan la faccenda è più inquietante. Perché l’inchiesta sul Mose e sul sistema del malaffare veneziano va avanti da oltre tre anni. Ed in tutto questo periodo i magistrati che dirigono l’indagine non hanno mai avvertito la necessità di ascoltare il personaggio che, stando alle rivelazioni giornalistiche, sarebbe il principale beneficiario delle tangenti della laguna. In compenso, però, dopo tre anni che non hanno ancora portato a prove concrete, i magistrati hanno chiesto l’arresto del presidente della Commissione Cultura della Camera nella evidente speranza che, schiantato dal dileggio mediatico e dalla paura di finire in galera dopo un voto a maggioranza giustizialista dell’Assemblea di Montecitorio, Galan confessi ogni genere di colpa e sbrogli una matassa che altrimenti sarebbe decisamente complicata.
Per chi crede che essere un esponente politico e per di più di centrodestra sia di per sé un’inequivocabile prova di colpevolezza, la richiesta di mandare Galan in carcere per convincerlo a confessare è assolutamente sacrosanta. Ma chi è convinto che questa pratica da Santa Inquisizione o da moderno regime totalitario sia inaccettabile in una democrazia liberale, non può non ribellarsi in nome non solo della presunzione d’innocenza che vale per Galan così come per ogni altro cittadino della Repubblica. Ma soprattutto in nome dei principi di libertà sanciti da una Costituzione che va sicuramente modificata nella parte relativa agli assetti istituzionali, sempre nel rispetto del bilanciamento tra i poteri dello stato, ma che va difesa ad oltranza nella parte dei diritti e delle garanzie degli individui.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:30