Orsoni e Mineo: spie   di un nuovo vecchio

Il caso Orsoni ed il caso Mineo indicano in maniera fin troppo clamorosa che il nuovo corso renziano del Partito Democratico altro non è che la riproposizione in chiave semplicemente giovanilistica del vecchio corso del cattocomunismo italiano.

La vicenda del sindaco di Venezia è la dimostrazione che la rottamazione ha cambiato le facce ma ha lasciato intatta una sostanza fatta di cinismo, doppiezza politica e morale ed incontenibile istinto al giustizialismo più ottuso ed inumano.

Uscito dagli arresti domiciliari con un patteggiamento di quattro mesi e con le tante scuse di magistrati consapevoli di aver avuto la mano pesante nei suoi confronti, Orsoni ha denunciato di essere stato immediatamente e totalmente abbandonato da un partito immemore di averlo candidato a sindaco, di averlo sollecitato a raccogliere finanziamenti elettorali, di aver incassato questi finanziamenti e di essere pienamente e consapevolmente inserito nel sistema corruttivo del Mose. Cioè da un partito che lo ha brutalmente sacrificato sull’altare del giustizialismo pregiudiziale pur di salvare la propria presunta diversità. Non solo quella di stampo berlingueriano, ma quella di nuovo conio di stampo renziano. I più solerti e pronti a rinnegare Orsoni ed a trasformarlo in un capro espiatorio sono stati proprio i rottamatori. Quelli che a partire dallo stesso Matteo Renzi non hanno esitato ad usare la vicenda di Orsoni e del Mose per marcare la distanza politica e morale tra il vecchio ed il nuovo corso. E lo hanno fatto con un cinismo ed una spietatezza in tutto simili a quelli della tradizione curial-stalinista del cattocomunismo nostrano.

Il caso Orsoni, in sostanza, dimostra che gratta il renziano e spunta fuori il solito post-comunista intriso di fondamentalismo dossettiano. Magari questo post-comunista dossettiano può avere il volto nuovo di Renzi o della Moretti per convincere gli italiani desiderosi di nuovo che la svolta è in atto. Ma il caso Orsoni indica che la svolta è stata una truffa elettorale. E che sotto il giovanilismo c’è sempre l'ossessione per il potere da conservare ad ogni costo. Lo stesso vale per il caso Mineo, che però non dimostra solo come il nuovo corso renziano sia a forte vocazione autoritaria come lo furono in passato il corso dalemiano, quello occhettiano, quello berlingueriano e quello togliattiano. Ma conferma anche che l’attuale legislatura è segnata da un’anomalia profonda ed inguaribile. Quella di un Pd che ha cambiato il proprio gruppo dirigente, ma non è riuscito a modificare i gruppi parlamentari, espressione in gran parte della vecchia gestione bersaniana e dalemiana.

Corradino Mineo e gli altri senatori che lo difendono sono sicuramente espressione della sinistra più oltranzista, tradizionalista e nemica di qualsiasi riforma. Ma fanno parte del Parlamento repubblicano e non possono essere liquidati come dei pericolosi deviazionisti da sostituire, isolare e magari espellere a piacimento dal Premier. Nessuno dubita che in condizioni ribaltate Mineo e compagni non esiterebbero a riservare ai renziani lo stesso trattamento che oggi subiscono dal nuovo gruppo dirigente del Pd. Ma questo dimostra solo, come il caso Orsoni, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole della politica italiana.

Renzi, tornato dalla Cina con una boria da grande timoniere, si trova alle prese con un doppio problema. Cercare di nascondere agli italiani che la sua è stata solo la rivoluzione del “togliti tu che mi ci metto io” ed incominciare a pensare seriamente che per avere gruppi parlamentari allineati e coperti non c’è altra strada che le elezioni anticipate.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29