I ballottaggi e il peso dell’astensionismo

Trarre considerazioni complessive dai ballottaggi per le ‘comunali’ è fuorviante. L’elezione in ogni Municipio italiano vive di luce propria. Questa è la regola. Tuttavia, l’esito delle votazioni, al di là dai risultati conseguiti da ciascun schieramento in campo, stimola una riflessione di spettro più ampio. A causa degli scandali venuti a galla nei giorni scorsi, l’emergenza, prima prettamente economica, ha investito la dimensione etica e valoriale della nazione. Per sventura dei nostri rappresentanti, o per l’inverarsi di un disegno occulto attuato da poteri concorrenti con quello democratico dei partiti politici, le cronache giudiziarie hanno incrociato la traettoria elettorale. Era dunque inevitabile che la pronuncia del voto divenisse l’occasione propizia per gli italiani di rinfrescare la memoria all’intera classe politica sulle responsabilità di chi amministra la cosa pubblica.

Quindi di segnali ve ne sono stati e anche di forte intensità. Uno in particolare: il dato dell’affluenza alle urne. Domenica hanno votato, al secondo turno, il 49,5 per cento degli aventi diritto, contro una presenza, al primo turno, fissata al 70,61 per cento. Vuol dire che l’astensione si è mossa all’interno di una forbice compresa tra il 30 per cento della prima chiamata e il 50 per cento della seconda. In crescita, rispetto al dato delle ultime elezioni per il Parlamento nazionale, dove l’affluenza per il voto alla Camera era stata del 75,20 per cento. Se si considera che l’elezioni amministrative, grazie al loro immediato impatto territoriale e al maggior numero di candidati presenti nelle liste, hanno un appeal maggiore rispetto alle altre elezioni, emerge che il dato dell’astensionismo si confermi costante dal 2011. Quindi il fatto che almeno il 30 per cento degli aventi diritto diserti le urne, è divenuto un connotato strutturale del comportamento del popolo italiano. Non è questione irrilevante.

Al contrario, essa deve preoccupare, e non poco, la classe di governo. Sebbene possa avere molte spiegazioni, la pratica dell’astensione resta un’espressione di dissenso radicale verso l’esercizio stesso della politica. Lasciamo da parte le giustificazioni semplicistiche propalate da chi attribuisce peso al clima meteorologico nella scelta di disertare le urne. Come se dopo una bella giornata, trascorsa al mare o ai laghi, non si potesse, volendo, andare a votare.

Di recente, si è pensato di interpretare il fenomeno, in chiave sociologica, argomentando che l’astensione sarebbe la risultante del mancato matching tra domanda di senso e offerta di governo dei destini individuali e comunitari. Può darsi che un certo numero di persone, non sentendosi adeguatamente rappresentato dalle proposte politiche in campo, abbia preferito astenersi, piuttosto che votare contro coscienza. Una componente, invece, va attribuita all’effettivo disgusto per il malaffare che accompagna alcuni comportamenti di politicanti insensibili alla disperazione e al dolore che aleggiano in una società in via di impoverimento.

Per quanto si voglia, e si debba, essere assolutamente garantisti esercitando il credo dell’innocenza fino a prova contraria, alcune manifestazioni di pubbliche ruberie, bisogna riconoscerlo, hanno avuto un impatto devastante sul morale di coloro che faticano a sopravvivere. Ciò ha prodotto sfiducia nel sistema democratico della rappresentanza effettiva degli interessi. L’intera politica è stata percepita come una dimensione avulsa dal quotidiano, la quale sopravviverebbe per effetto di un processo virale autogenerativo. Qualcuno, scomodando l’impianto piramidale di società a struttura castale, ha rappresentato la categoria del ‘politico’ come una propaggine allogena della società, di cui sarebbe salutare fare a meno.

Un’altra tesi connette il fenomeno astensionistico alla sostanziale perdita di sovranità nazionale, registrata in parallelo all’avanzamento del processo d’integrazione dell’Unione europea. In questo, caso il cittadino proverebbe disagio per l’incapacità della politica nazionale a fronteggiare la volontà di potenza di una governance sovraordinata alle regole, come agli stili di vita degli individui e alle scale assiologiche delle identità territoriali. Il senso d’impotenza verso una realtà che sembra irreversibile, indurrebbe l’individuo a comportamenti rinunciatari. Bisognerebbe chiedersi: che cosa potrebbe davvero scuotere questa massa ampia di rassegnati? Una risposta esaustiva non è, al momento, alla nostra portata. Ciò che possiamo osservare è che il fenomeno, lungi dal regredire, si mostra in costante espansione. Per questo motivo la nostra classe politica farebbe bene a non contare, nelle condizioni date, su miracolistici recuperi di quote consistenti di elettorato ‘dormiente’. Se neppure dopo il ciclone Renzi le cifre della partecipazione si sono mosse in positivo, vuol dire che la consapevolezza della sostanziale inutilità del voto ha fatto aggio sulla volontà di riaffermare un diritto inalienabile in uno Stato democratico. Rassegnamoci all’idea che una parte della popolazione sia decisa a starsene da parte, a meno che non si stia preparando per altro. Sì, ma cosa?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24