
In apparenza il clamoroso successo di Matteo Renzi stabilizza una legislatura che in caso di vittoria di Beppe Grillo avrebbe avuto la vita sicuramente spezzata. Non è forse vero che ad essere sconfitto è stato il partito che aveva promesso di cacciare il Presidente della Repubblica, chiedere la testa del Governo e pretendere le immediate elezioni anticipate? E non è altrettanto vero che a vincerle è stato il leader che ha annunciato di andare avanti fino alla scadenza naturale del 2018 per avere il tempo di realizzare tutte quelle riforme che servono a far uscire il Paese da una crisi sempre più pesante ed insopportabile?
Le domande retoriche hanno risposte scontate. Ma, benché Renzi abbia portato il Partito democratico al 40 per cento doppiando quel Movimento Cinque Stelle che aveva minacciato il sorpasso ed abbia conquistato sul campo non solo la legittimazione popolare a governare ma anche la concreta possibilità di essere considerato il Tony Blair italiano, rimane il rischio che la legislatura sia destinata a finire prima del tempo.
Ad avallare questo rischio concorre un fattore preciso. Il successo nel voto europeo aumenta a dismisura le attese degli italiani sull’azione riformatrice e salvatrice del Presidente del Consiglio, ma non riduce in alcun modo le difficoltà in cui il Premier si trova ad operare nell’attuale Parlamento italiano. Al contrario, il risultato elettorale sembra fatto apposta per accentuale ed inasprire queste difficoltà, ponendo Renzi nella condizione paradossale di poter godere della massima forza in un quadro di estrema debolezza.
Il voto infatti ha premiato enormemente il Pd, ma ha fatto saltare i rapporti su cui era nato e si reggeva il Governo e la sua ambizione di realizzare le riforme. Renzi ha cannibalizzato Scelta Civica fagocitando la stragrande maggioranza dell’elettorato che alle ultime politiche aveva seguito Mario Monti e ha svuotato anche una buona parte del bacino elettorale del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano e dell’Udc di Pier Ferdinando Casini. In questo modo il Pd è arrivato al 40 per cento, ma ha defogliato i cespugli trasformandoli in stoppie secche e desolate. Scelta Civica, abbandonata dal proprio fondatore e già orientata a confluire nella sinistra, può anche formalizzare il suo annullamento nel Pd annunciando una fusione che di fatto è già avvenuta. Ma il partito di Angelino Alfano, che è riuscito a superare l’asticella del quattro per cento solo grazie al piccolo zoccolo duro dei voti di Casini, non può seguire l’esempio dei montiani. Deve, sempre che voglia continuare ad esistere mantenendo una qualche identità, accentuare le differenze. Non solo con la componente post-comunista del Pd, ma soprattutto con un renzismo che punta chiaramente ad allargarsi al centro facendo piazza pulita dei partiti minori di quell’area.
Il trionfo, in sostanza, rende paradossalmente più debole Renzi. Anche sul terreno delle riforme, dove la sponda assicurata da Forza Italia può durare al massimo il tempo necessario a Silvio Berlusconi per il rinnovamento del partito, ma ad un prezzo inevitabilmente più alto del passato. Tutto questo può portare ad una accelerazione dello stesso Renzi verso le elezioni anticipate per eliminare una volta per tutte il paradosso che lo condiziona e lo frena?
L’ipotesi non è peregrina. Ma può verificarsi solo dopo il semestre di presidenza italiana della Ue. Per il momento ciò che è più probabile è un rimpasto di Governo che dia al Pd una responsabilità adeguata al suo peso ed ai cespugli il nuovo ruolo di stoppie.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29