
In un Paese normale la campagna elettorale che si è conclusa ieri sarebbe stata dominata dalla discussione su come passare, da un’Unione Europea di natura economica fondata sulla moneta unica, ad un’Unione Europea di natura politica fondata sul consenso dei propri cittadini.
Non essendo il nostro un Paese normale, invece, la campagna elettorale non si è minimamente occupata di quale dovrebbe essere la forma istituzionale di una nuova Europa politica, ma si è risolta in una frenetica competizione tra i partiti sulle sole questioni interne. Come se invece di votare per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo gli italiani dovessero decidere di come cambiare la composizione delle assemblee di Montecitorio e di Palazzo Madama.
Scandalizzarsi per un fenomeno del genere è sbagliato. Perché è vero, come ha detto Matteo Renzi, che il voto di domenica non modificherà comunque gli attuali equilibri politici interni. Ma è ancora più vero che i risultati delle elezioni europee sono destinati a trasformarsi in un test politico di primaria importanza, che non potrà non avere conseguenze sui prossimi sviluppi della politica nazionale.
Il test in questione riguarda soprattutto proprio chi nega che il voto possa incidere sul quadro politico nazionale, cioè Renzi. Per un Presidente del Consiglio che non è parlamentare e che è entrato a Palazzo Chigi non in seguito alle normali elezioni democratiche ma solo sulla base delle primarie del Partito democratico, le Europee avrebbero dovuto rappresentare l’occasione per conquistare almeno una parte di quella legittimazione popolare di cui qualunque capo del Governo non può in alcun caso fare a meno.
All’inizio della campagna elettorale, per la verità, Renzi ha accarezzato l’idea di trasformare il voto per il Parlamento di Strasburgo in una sorta di plebiscito sulla sua persona. A spingerlo in questa direzione concorrevano le attese che le sue promesse di riforma avevano acceso nel Paese, il sostegno di tutti i principali media, lo stato di difficoltà in cui si trovava in quel momento il Movimento Cinque Stelle e la previsione che un Berlusconi azzoppato per via giudiziaria non avrebbe potuto ripetere le sue solite rimonte elettorali.
Ma più la campagna elettorale è andata avanti, più quella che Renzi aveva immaginato essere una cavalcata trionfale verso un successo super-annunciato ha cambiato forma e direzione. Ed è progressivamente diventata una consultazione che il Premier ha cercato di depotenziare sostenendo che qualunque possa essere il suo esito non inciderà in alcun modo sul Governo e sulla sua maggioranza.
Il passaggio dal plebiscito al test senza conseguenze non è stato spontaneo. A provocarlo sono stati i sondaggi che di settimana in settimana hanno segnato una parabola discendente per un Pd che in partenza veniva accreditato di oltre il 35 per cento. Poi, e soprattutto, è stata la capacità di Beppe Grillo di rilanciare il proprio partito confermandolo come unica forza antisistema decisa ad intercettare l’ampia protesta presente nel Paese all’insegna del “cacciamoli tutti!”.
E, infine, è stata la possibilità data a Silvio Berlusconi dai magistrati di Milano provvisti di buon senso di partecipare, sia pure con una serie di limitazioni (prima tra tutte quella di non poter agitare il tema della malagiustizia) alla campagna elettorale. Da corridore solitario, in sostanza, Renzi si è trovato a correre avendo ai fianchi due concorrenti decisi a non dargli tregua ed in grado di farlo con grande efficacia. Il risultato è che anche se nessuno è in grado di fare previsioni sui risultati, tutti hanno la certezza che l’“incoronazione” di Renzi a “Uomo della Provvidenza” è rinviata sine die.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29