Capitani coraggiosi dell’acqua calda

Da Firenze è arrivata a Palazzo Chigi la tanto sospirata “scoperta-dell’acqua-calda”. Anche la sinistra, quella dura e pura che da tempo e con orgoglio si è autonominata democratica, dopo i tanti fallimenti di imprese, aumento della disoccupazione e suicidi di disperati senza lavoro o perseguitati dalle tasse, ha finalmente scoperto che per risanare l’Italia è necessario un drastico ridimensionamento dello Stato, della sua soffocante burocrazia unitamente ad un vasto programma di liberalizzazioni e riforme. Bontà sua ha anche capito, la sinistra, che sono urgenti il rilancio dell’impresa, un rapido snellimento delle procedure contrattuali riguardanti il lavoro, un considerevole abbassamento delle aliquote fiscali a carico del lavoratore e del datore di lavoro, un’assoluta rivalutazione del merito e della competitività, un percorso scolastico più selettivo e rigoroso al passo con i tempi, una riforma seria della Giustizia e dell’Ordine giudiziario, insieme a tante altre cose da troppo tempo dimenticate e colpevolmente sottovalutate se non addirittura censurate dal sindacato e dal suo diretto rappresentante di partito in Parlamento.

Ma a che pro questa riscoperta, e per rilanciare cosa? Per quali oscuri motivi è necessario compiere questa indigesta contro-rivoluzione che non è “de-sinistra”? La risposta ci sarebbe ma non si può dire tutta in una volta. Magari usando una sola parola. Quella parola da troppi anni dimenticata e nascosta sotto il tappeto della retorica comunista degli ultimi quarant’anni. La parola è una sola e si chiama mercato. Quell’acerrimo nemico alla cui base è la concezione liberista della società, ove alla progressiva riduzione del sistema burocratico e statalista deve progressivamente sostituirsi l’impresa privata, il legittimo profitto e l’affermazione di una sana competitività in un sistema giudiziario indipendente, garantista e non sostanzialmente eterodiretto dalla sinistra.

Contro questa visione “liberal” il Pci si è sempre opposto strenuamente. Ma dalla fine degli anni Sessanta in poi le truppe delle varie anime del comunismo scatenarono scioperi, mettendo a soqquadro scuole, università, occupando stazioni ferroviarie, fabbriche, cantieri, ospedali e tutto quanto di pubblico e di privato potesse essere conquistato, per protesta distrutto e magari dato alle fiamme. L’arma più micidiale a tre punte e insindacabile era guidata dalla Cgil, al tempo soprannominata Trimurti, nei confronti della quale per i famigerati “padroni”, ufficialmente definiti sfruttatori della classe-operaia di quel tempo (oggi più gentilmente chiamati capitani coraggiosi, dalla sinistra illuminata da quando cioè i figlioletti industrial-democratici alla Matteo Colaninno hanno cominciato a lavorare nel “sistema”) non c’era scampo: o patteggiavano alle condizioni del triplice sindacato o accettavano la conflittualità permanente con centinaia di migliaia di ore di lavoro da perdere ogni anno.

All’epoca, l’unica ad avere accesso al paradiso della retorica comunista, sicura di avere sempre ragione di fronte al giudice, era la classe operaia. Ad essa il compito sacrale di portare a termine in qualunque modo la battaglia finale per la lotta di classe, il cui obiettivo era annientare i famigerati padroni, distruggere industrie e imprese, farla finita col lavoro subordinato, ignobile strumento disumano di umiliazione e di marxiana “alienazione”, abbattere i veri nemici del popolo: lavoro, padroni e borghesia. Quanta propaganda dagli anni Settanta in poi è stata fatta da quella sinistra per inculcare nelle menti dei giovani di allora queste sinistre parole d’ordine? Unita ad un malcelato sentimento d’invidia, quante volte abbiamo sentito criticare con asprezza l’assetto sociale basato sul merito? Per quanto tempo quella sinistra, che ha nomi e cognomi tuttora presenti in Parlamento, ci ripeteva ogni giorno che la valutazione per merito era un criterio da combattere perché contro il popolo. Spiegando, con un sofisma tipico della retorica, che il principio della “differenza” basato sulla meritocrazia era lo strumento reazionario per colpire al cuore l’universale valore dell’uguaglianza. Quante volte, illuminati docenti universitari hanno dovuto “subire” per calcolo o pelosa convenienza o per reale timore l’imposizione “democratica” del diciotto politico? Quanti di questi, pur rendendosi conto del grave danno che infliggevano alla scuola e con essa alla società che avevano il compito di costruire, hanno colpevolmente accettato questa dittatura cultural-proletaria?

Chi non ricorda gli esami nelle università nel Sessantotto e negli anni successivi? Dieci, dodici studenti per volta si avvicendavano in gruppo alla cattedra leggendo un brano del Libretto Rosso di Mao, o soffiando dentro un piffero e pretendendo la promozione per diritto sociale, dopo aver bivaccato con una lunga “autogestione” nelle varie facoltà. Ma una domanda si affaccia prepotente: chi c’era dietro tutto ciò? Chi era quell’intelligenza che pianificava strategie inducendo e alimentando la ribellione con la propaganda? Quanti di coloro che “hanno-fatto-il-sessantotto” sono poi andati in cattedra, a presiedere importanti istituzioni, a ricoprire incarichi di garanzia democratica, a gestire la giustizia? Anni terribili furono quelli che videro poi tanti morti, tanti sacrifici e soprattutto anni che videro il lento, inesorabile logoramento dei valori fondanti della comunità nazionale. Quei valori che costituiscono la forza, la volontà e la dignità di un popolo, che dànno un significato alla nazione a cui si appartiene e verso la quale con orgoglio si offre il proprio contributo di intelligenza, di lavoro e di impegno civile.

Kennedy mi pare dicesse che un americano non doveva domandarsi cosa l’America avrebbe potuto fare per lui, ma cosa egli avrebbe potuto fare per l’America. Ma, si sa, gli Usa a quel tempo erano i nemici. A parte la maggioranza silenziosa e borghese, che per principio doveva vergognarsi di essere tale, gli altri, i veri democratici, apprezzavamo le guardie rosse di Mao o la rigida programmazione dell’economia statale dell’Unione Sovietica. All’epoca lo slogan ricorrente era “servire il popolo”. Ancora non era venuto il motto “yes we can” dell’ex sindaco di Firenze o l’altro più lontano “I care” dell’ex sindaco di Roma (si vede che gli slogan americani fanno bene ai sindaci che vogliono fare carriera). Ancora non c’era stata la svolta di alcuni del Pci che, tornando da un viaggio dagli Stati Uniti, scoprivano senza averlo prima saputo di essere dei veri kennedyani, magari spiegandoci loro l’America. Mosche bianche della sinistra o tatticismi politici? Ancora a quell’epoca la sinistra aveva altri idoli, altri ideali, altri obiettivi. Era convintamente filo-sovietica, nostalgica del Pcus e del Migliore. Ma per sicurezza mandava i figli a studiare ad Harvard. Non si sa mai.

In compenso dopo quarant’anni di duro lavoro e sistematico impegno, mobilitando operai, studenti, attori, cantanti, giornalisti, magistrati, artisti e qualche illuminato industriale, la sinistra finalmente è riuscita nel suo intento: distruggere l’assetto economico, produttivo e culturale dell’Italia. Ha vinto demolendo l’Italia dall’interno, nell’intimo: negando nel lavoro il primo dei valori degradandolo a strumento di sfruttamento, annichilendo l’impegno e il sacrificio personale, cancellando dall’uso corrente l’impronunciabile parola di Patria, declassandola al più corrente e anodino termine di Paese. I comunisti di allora, possono dirsi oggi con orgoglio “democrat” e veri amici di quella che una volta si scriveva “Amerika”. Dimenticando che per l’ottenimento dell’egualitarismo tout court di un tempo hanno sacrificato schiere di giovani preparati, respingendo la selezione per merito col conseguente risultato di ottenere il disimpegno generalizzato e segando di fatto le gambe all’impresa, allo spirito d’iniziativa, dando l’illusione col diritto acquisito del tutto garantito ora e subito.

Adesso che l’Italia è stata sconfitta, prima che dalle banche e dagli euroburocrati, al suo interno, baldanzoso arriva dal Partito Democratico un giovane che intende risvegliare il “Paese” dal sonno della ragione, narcotizzato da anni dal politicamente corretto della sinistra. Col suo fare svelto e disinvolto, fa scoprire agli italiani tutto d’un botto che esiste il merito. Che per misurarsi con la concorrenza e la globalizzazione è necessaria la selezione e la competitività, che bisogna essere agonistici e sciolti. Che esistono pur dei limiti agli stipendi dei super manager statali (salvo spostarli dalle ferrovie ad altre occupazioni con uguali o maggiori emolumenti), che le spese per la politica debbono essere drasticamente ridotte, che finalmente Stato e burocrazia devono essere drasticamente ridimensionati. Che o si fa così o si muore tutti. Alla faccia dei sindacati e dei comunisti duri, puri e comunque (parzialmente) da rottamare.

Queste cose la destra, Berlusconi, i liberal socialisti, il Popolo della Libertà, Forza Italia di ieri e di oggi le avevano sempre dette. Ingenuamente volevano fare la “rivoluzione liberale” in Italia: con le Regioni, le Provincie, le Comunità montane, i Comuni, i Municipi e le Città metropolitane. Illusi, al primo tentativo di procedere su qualche riforma, apriti cielo! Iniziavano gli scioperi, le assemblee studentesche per la difesa del diritto allo studio, le occupazioni feroci e prolungate, le manifestazioni oceaniche e i concertoni strappapalle dei cantautori di regime, processi, denunce, indagini a non finire, decimazioni giudiziarie. Con il costante impegno giudiziario il piagnisteo italiano aveva un repertorio vastissimo su cui contare: dal “bunga bunga”, all’associazione esterna. Come dire, l’imbarazzo della scelta. Oggi, che le stesse cose vuol farle il segretario del Pd, è a malapena consentito un po’ di mugugno. Chi si azzarda a disturbare il manovratore è un “antitaliano”, un “komunista” reazionario da rimuovere e/o da rottamare a seconda delle convenienze nell’interesse supremo delle riforme. Ora il “Paese” aspetta fiducioso la promessa rivoluzione liberale finalmente “de-sinistra”. Ma il Renzi avesse mica sbagliato bottega? No, ha solo scippato un programma politico. Quello che i comunisti (prima) non volevano.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:21