
“Tacete, il nemico vi ascolta!”. Il simbolo dell’attuale fase politica sembra essere diventato il famoso manifesto di propaganda della Seconda guerra mondiale. Quello in cui si vedeva un soldato con l’elmetto inglese in testa che, con una mano all’orecchio, cercava di carpire i segreti dell’Italia proletaria e fascista.
Il caso Gentile, infatti, depurato di tutti i suoi aspetti politici, può essere considerato come il definitivo salto di qualità verso un tipo di società dove alle spalle di ognuno si nasconde sempre qualcuno pronto a registrare una voce sbagliata per darla in pasto alla grande macchina della gogna mediatica. Quella destinata a fare polpette dell’incauto chiacchierone. Dimentichiamo per un attimo che Gentile è un esponente del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, che è uno straordinario raccoglitore di preferenze in Calabria e che si comporta nel proprio territorio come ai loro tempi facevano i “potenti” Misasi e Mancini. Dimentichiamo pure che per essere un pilastro elettorale degli alfaniani è stato prima premiato con la carica di sottosegretario e successivamente obbligato a rassegnare le dimissioni per non offrire agli avversari di Matteo Renzi presenti nel Pd un pretesto di polemica nel partito e nella maggioranza.
Spersonalizziamo la faccenda ed atteniamoci solo ai fatti. In questo modo arriviamo facilmente a comprendere il salto di qualità segnato dalla vicenda che porta il nome del politico calabrese. Cioè il passaggio dalla liquidazione mediatico-giudiziaria di un indiziato a causa di una qualche intercettazione telefonica o ambientale, alla liquidazione mediatica senza alcuna connotazione giudiziaria di un sospettato a causa di una registrazione privata di una conversazione tra terzi.
A molti, come ad esempio ai direttori dei giornali che hanno promosso la campagna contro il politico calabrese, questo salto di qualità appare come un fenomeno scontato. Anzi, addirittura necessario (se non indispensabile) per fare pulizia di ogni forma di arroganza di potere. Ma se si considera il processo di trasformazione della società avvenuto negli ultimi vent’anni, ci si rende facilmente conto che dall’impunità giudiziaria assoluta per i potenti dell’inizio degli anni Novanta si è arrivati all’eccesso opposto della assoluta ed indiscriminata punibilità mediatica e sociale non più dei soli inquisiti, ma di qualsiasi semplice cittadino finito nella rete delle registrazioni private di conversazioni altrui. I direttori che hanno guidato vittoriosamente la crociata contro Gentile in nome della libertà di stampa hanno giustamente difeso la sopravvivenza del giornale calabrese dalle minacce dello stampatore, preoccupato delle reazioni del potente ex sottosegretario. Ma non hanno considerato le conseguenze della loro campagna contro un tizio che al momento non risulta neppure inquisito dalla magistratura, ma che viene esposto alla gogna mediatica solo per la propria collocazione politica e sulla base di una registrazione privata tra terzi.
La conseguenza è “Tacete, il nemico vi ascolta!”. Cioè l’ufficializzazione dello Stato di guerra all’interno della società italiana. Una guerra non tra un nemico esterno e la nazione, ma tra ogni singolo cittadino ed il resto della popolazione. Una guerra di sospetti reciproci, di maldicenze e di calunnie, di vendette personali, di faide politiche ma anche familiari, regionali, di potere. Una guerra in cui non servono più le pallottole rappresentate dagli avvisi di garanzia e dalle inchieste giudiziarie, ma bastano solo i corpi contundenti delle registrazioni raccolte segretamente. Una guerra dove ogni politico, ogni amministratore di ogni genere e grado, ogni singolo cittadino (compresi i direttori difensori della libertà di stampa inconsapevoli calpestatori dei diritti individuali) se vorrà sopravvivere al pericolo di distruzione non più mediatico-giudiziaria ma semplicemente mediatica, dovrà sempre e comunque seguire la regola dello stato di belligeranza sociale e civile: tacere.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29