
Anche alla Camera dei deputati Matteo Renzi ha scelto la strada dell’irritualità un po’ sfrontata con cui già al Senato ha cercato di avvalorare il senso di fretta ed urgenza della sua azione politica. E lo ha fatto riproponendo il pantheon delle parole e degli aggettivi della soteriologia renziana, da alibi a chance, da coraggio a sogni, da franchezza ad audacia, da semplicità a chiarezza, da puntualità a prospettiva, da futuro a meraviglia fino al gusto del rischio.
Ha rigiocato la carta della diversità chiedendo che gli venisse servito di nuovo il caffè in aula, portandosi di persona il suo pc, inedita presenza sul banco di un Presidente del Consiglio, trascorrendo tutta la prima parte del dibattito in un iperattivismo da tweet e ignorando gli interventi di molti deputati come quello del leghista Massimiliano Fedriga, a cui ha preferito lo scambio di battute con il compagno di partito Roberto Giachetti. E si è piegato di malavoglia e con tanto di spallucce ad ascoltare il deputato del Carroccio solo quando la presidente della Camera ha richiamato ufficialmente la sua attenzione. Alla liturgia della fretta, dell’iperattivismo (ben rappresentate dal libro di Murakami “L’arte di correre” lasciato in evidenza ad usum telecamere), si dovrà tutti prender dimestichezza. Perché ad essa Renzi affida il messaggio, di rottura e discontinuità dal passato e dalla politica paludata, che vuole dare a chi sta fuori dal palazzo.
Ma nemmeno a Montecitorio l’aver voluto rimarcare con la gestualità dell’urgenza la sua mission e il suo discorso diretto ai cittadini, ha intaccato la fortissima diffidenza nei confronti dei contenuti che l’intera compagine parlamentare addirittura fatica ad individuare. Compresa Forza Italia che dall’opposizione garantisce, non votando la fiducia, un atteggiamento criticamente bonario o bonariamente critico, almeno fino a quando non sarà sciolto il nodo della nuova legge elettorale e dell’emendamento Lauricella. Anche ieri Renzi ha compiuto una solenne illustrazione delle emergenze del Paese. Ma, questa è la reiterata accusa degli avversari esterni ed anche dei contestatori interni del Pd, non ha indicato minimamente come fare per affrontarle. Dal cuneo fiscale all’emergenza occupazione, tutto è avvolto nella nebbia. In particolare, proprio dal Pd si sono espresse perplessità sulla prospettiva di utilizzare “in modo diverso” la Cassa Depositi e Prestiti anche come strumento di accesso al credito per la piccola e media impresa. Un clima di diffidenza che molti rumors sostengono esser culminato quando Bersani, giunto a Montecitorio per votare la fiducia e formalmente dare un segno di unità del partito, ha dichiarato di essere tornato a Montecitorio “per abbracciare Enrico” (Letta). Una stretta, quella tra i due, apparsa come quella di due “sconfitti speciali” e accompagnata da un applauso, suonato un tantino ipocrita, ben più caloroso di quello che ha commentato il discorso di Renzi. Ennesimo siparietto su i mille e uno cambiamenti di casacca del Pd in cui ha giocato senz’altro la prospettiva assicurata da Renzi di rinviare le elezioni e arrivare al 2018.
Solo poche ore prima, nella tarda mattinata, ci aveva pensato Stefano Fassina, allineato sulla fiducia, a parlare di cambiamento dello stile comunicativo ma non nei riferimenti programmatici, avvisando che la sua non sarebbe stata una delega in bianco ma che voterà sui singoli provvedimenti. Troppa vaghezza e “retorica europeista” anche nei riferimenti al rapporto dell’Italia con l’Unione europea e l’eurozona. Stessa spigolosità, dunque, che aveva riservato al Premier una Finocchiaro consapevole “già in autunno che Renzi sarebbe arrivato a Palazzo Chigi” e che di fronte alla mancanza programmatica del Premier si era semplicemente ritirata in uno sprezzante “sono antica, rimando il giudizio”. Ha ragione la Finocchiaro, tutto è cambiato e tutto cambierà, siamo di fronte ad una rivoluzione. Sì, per ora squisitamente formale, condotta sul consenso mediatico, sull’affrancamento dalla consuetudine, quella che va affossata per principio perché sinonimo di ampollosità. Tanto che anche Pippo Civati, fermo sulla sua “ossessione di ricostruire il centrosinistra” ma pronto a seguire le orme renziane sulla strada della contro-liturgia ma soprattutto quelle grilline, ha pensato bene di rivolgersi al Premier con un confidenzialissimo “Matteo, stai sbagliando, anche io ho sognato di arrivar fin qui ma non con una manovra di palazzo alla Rumor”.
La richiesta di indicare come conciliare coperture finanziarie e conti pubblici è risuonata come un’eco anche tra i parlamentari di Scelta Civica (la Lanzillotta ha criticato il mancato riferimento a politiche liberiste nel mercato) e della Lega, che pure con Maroni ha vincolato la collaborazione futura all’abolizione di quel patto di stabilità che lo stesso Renzi da sindaco ha definito “Patto di stupidità”. Un pressing serrato dell’aula ma anche da parte della stampa straniera: il Time sul neopremier ha scritto: “Potrebbe ancora essere il leader italiano che comincia a chiudere con il passato di decenni di stagnazione economica”, mentre Le Figaro ha spiegato che “l’ex sindaco di Firenze parla più da consigliere locale che da Presidente del Consiglio, pieno di riferimenti al popolo dei mercati di quartiere, alla vita reale, alla generazione Erasmus, ma senza alcun riferimento alla politica estera. Non a caso un altrettanto veloce sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, ha deciso di non scantonare ulteriormente le domande sulle risorse deputate a coprire gli interventi annunciati. “Dove troviamo le risorse? - è stato il quesito ripetuto dal Delrio con collaudato rituale usato dall’alunno in difficoltà - Spiegherà tutto bene il professor Padoan”, e “ci mancherebbe anche che non ci fossero le coperture”.
Già, ci mancherebbe anche questo dopo la fiumana di retorica cui ci ha sottoposto finora il Premier. Cui si chiede davvero di darci una chance, quella di poter scrivere di contenuti.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:21