
Matteo Renzi sta incominciando a rendersi conto che nel nostro Paese il Presidente del Consiglio non è il Capo del Governo e neppure il “primus inter pares”, ma è solo un “minus” esposto ad ogni genere di condizionamento. Può essere che da sindaco di Firenze abbia pensato che Palazzo Chigi potesse essere un Palazzo Vecchio più grande e, soprattutto, contenente la mitica “stanza dei bottoni”.
Ma i pochi giorni passati da Presidente del Consiglio incaricato gli debbono aver fatto capire che nel Palazzo ci sono tante stanze ma pochissimi bottoni. Cioè che non basta aver vinto le Primarie del Partito Democratico con due milioni e mezzo di voti per assumere un ruolo di guida effettiva e piena dell’Esecutivo. E che non basta neppure una investitura da parte del corpo elettorale. Ci vuole una vera e propria riforma capace di liberare il ruolo di Presidente del Consiglio di tutti i condizionamenti che gli cadono addosso da un sistema istituzionale fatto apposta per impedire che un Premier sia effettivamente tale.
La necessità di una riforma del genere diventa più evidente proprio nella fase della preparazione del futuro Governo. In particolare nel momento della scelta dei ministri. Quando, cioè, il Presidente del Consiglio incaricato deve, attraverso l’individuazione dei responsabili dei dicasteri, disegnare la fisionomia di quello che passerà alla storia come il Governo che porterà il suo nome. Già, come sarà l’aspetto del “Renzi I”? Rispecchierà il carattere, l’ambizione, i pregi ed i difetti del suo formale titolare, oppure risulterà essere una sorta di costume d’Arlecchino in cui ogni toppa sarà riconducibile ad un “padrone” diverso da quello ufficiale?
Nella Prima e nella Seconda Repubblica i Governi sono sempre stati costruiti sulla base del manuale Cencelli, applicato alle coalizioni di cui erano espressione. Il Presidente del Consiglio poteva al massimo scegliersi il sottosegretario alla Presidenza, suo più stretto collaboratore. E poteva trattare con i partiti e con le correnti sui nomi dei responsabili del dicasteri. Nella fase di avvio della cosiddetta Terza Repubblica al manuale Cencelli si è aggiunta una nuova e più stringente regola. Quella che impone al Presidente del Consiglio incaricato di concordare i nomi dei ministri più qualificanti con il Presidente della Repubblica, titolare non tanto di un potere che gli viene dalla Costituzione ma di una forza condizionante che gli deriva dall’aver assunto il ruolo di supremo garante degli interessi europei in Italia.
Renzi aveva probabilmente messo in conto che nel fare il Governo avrebbe dovuto accettare la pretesa di Angelino Alfano di rimanere al Viminale, di Scelta Civica di avere comunque un proprio rappresentante, di Casini di non vedere cacciato Mauro, del Pd di ottenere un numero di dicasteri più ampio di quello del Governo Letta. Ma forse non aveva previsto che nella scelta del ministro dell’Economia avrebbe dovuto trattare con Giorgio Napolitano, divenuto portavoce della richiesta delle Cancellerie europee di piena e totale continuità della politica economica italiana.
Il Presidente della Repubblica, in pratica, ha chiesto che all’Economia vada un tecnico che non modifichi di un millimetro la linea di Monti e di Saccomanni. E di fronte a questa richiesta del Quirinale al povero Renzi non è rimasto altro che chiedere di poter almeno ritrovarsi con un personaggio con cui andare minimamente d’accordo. Il Governo che nasce, quindi, non sarà il “ Renzi I” ma il “Renzi-Napolitano III”. Cioè la dimostrazione lampante della necessità di una riforma destinata ad eliminare l’anomalia del Premier dimezzato.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29