Governo dei fatti o uscita di scena

Al di là della montagna di chiacchiere che stanno accompagnando la nascita del primo Governo Renzi, ci sono alcuni elementi che fin da adesso si possono dare per scontati. In primis, anche i più sprovveduti dovrebbero aver compreso che la rischiosa operazione politica tentata dal temerario sindaco di Firenze non comporta uscite di sicurezza, per così dire. O si va fino in fondo, ottenendo risultati significativi per il Paese, o si finisce nella soffitta dei tanti fallimenti politici italiani, senza alcuna possibilità di recupero. Ciò soprattutto in virtù delle enormi aspettative che la linea spregiudicata del rottamatore ha creato non solo nel suo elettorato di riferimento, bensì nell’intera opinione pubblica.

Da questo punto di vista, un fallimento del suo Governo lo etichetterebbe come uno dei tanti cantastorie del nostro tradizionale teatrino democratico, caratterizzato da sempre per uno squilibrio eccessivo tra promesse pre-elettorali e riforme effettivamente realizzate dai vari Esecutivi, fatta salva una continua lievitazione della tassazione e della spesa pubblica. Dunque, giunto a passo di bersagliere nel palazzo del potere esecutivo, Matteo Renzi si trova ora nella sostanziale necessità di governare con incisività. Ed egli non potrà certo fare come il socialista Pietro Nenni il quale, accettando di dar vita al primo centrosinistra, pronunciò la famosa frase: “Sono entrato al Governo, ma non ho trovato la stanza dei bottoni”.

Il giovane segretario democratico, pur godendo attualmente di un grande sostegno nel Paese, sarà costretto ad inventarseli detti bottoni, se vorrà dare un senso compiuto alla sua sfida politica. Ora, come abbiamo già scritto su queste pagine, nessuna politica di risanamento e di rilancio economico può prescindere da un taglio sostanziale della spesa pubblica, nodo gordiano che nessuno finora è stato in grado di affrontare. Ma per farlo, ed è qui che valuteremo la statura reale dell’uomo, il suo Esecutivo dovrà sfidare la grande impopolarità di una tale operazione, dato che dietro gran parte delle colossali uscite dello Stato - oramai oltre 830 miliardi all’anno, ossia il 55% del Pil - si celano gli interessi, a volte anche cospicui, di milioni di individui. Milioni di persone che votano e che, come è stato ben spiegato da Buchanan nella “Teoria della scelta pubblica”, organizzati in una miriade di gruppi di pressione esercitano una spinta che da sempre blocca in Italia qualunque pur blanda riforma di orientamento liberale. Ebbene, in estrema sintesi, Renzi avrà il coraggio di incidere profondamente nei settori chiave della stessa spesa pubblica, onde trovare le necessarie risorse per abbassare una tassazione assolutamente insostenibile?

Egli se la sentirà di sfidare la tumultuante piazza sindacalizzata allorché, dopo aver pronunciato molti no alle inevitabili richieste di altre spese provenienti principalmente dalla sua base di consenso, il suo Governo dovrà affondare il bisturi dei tagli nella pubblica amministrazione, nella sanità e nella voragine del sistema previdenziale? Su questo punto abbiamo molti dubbi, anche considerando la strana maggioranza che lo sostiene, tuttavia sospendiamo il giudizio in attesa di valutare i primi atti del ministero Renzi.

Resta comunque un dato incontrovertibile: con le illusioni e gli annunci, come abbiamo potuto ben sperimentare anche nel corso dell’intera Seconda Repubblica, non si va da nessuna parte. Questa volta se si ha l’intenzione di fare sul serio, si dovrà veramente porre mano ad uno Stato burocratico e assistenziale che la nostra economia non può più permettersi di finanziare. Vedremo e valuteremo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:19