
Matteo Renzi ha respinto senza esitazione il tentativo di Enrico Letta di coinvolgerlo nella gestione del Governo attraverso un rimpasto della compagine ministeriale segnata dall’ingresso di qualche esponente renziano. A parole il sindaco di Firenze ha sostenuto che il Governo viene percepito dall’opinione pubblica come un governo del Partito Democratico. E che, di conseguenza, il partito deve sostenere l’Esecutivo ed incalzarlo ad essere sempre più attivo ed efficace per non farsi ricadere addosso le conseguenze delle sue carenze. Ma nei fatti il secco “no” al rimpasto indica che Renzi intende tenere ben distinta la sorte del Governo da quella del partito.
Non solo perché al primo tocca il compito di gestire l’emergenza e la fase di transizione delle piccole intese ed al secondo spetta l’impresa di realizzare una serie di riforme, prima fra tutte quella elettorale, mai realizzate in passato. Ma soprattutto perché la fase discendente di un Governo fatalmente a termine riguarda Enrico Letta, mentre la fase ascendente di un partito dalla forte vocazione riformista che non si esaurisce nel breve periodo ma si proietta nel tempo spetta a se stesso. Volendo fare un paragone storico si potrebbe affermare che Renzi considera l’Esecutivo Letta un “Governo amico”.
Sull’esempio di come i capi democristiani del post-De Gasperi considerarono il Governo Pella, un monocolore segnato dalla presenza di tecnici. E che lo stesso Renzi, rispetto al Governo Letta, si pone nello stesso modo in cui Amintore Fanfani, portatore di un progetto di rinnovamento politico e generazionale della Dc, si pose nei confronti del Governo Pella. Può essere che il paragone possa non piacere a Renzi. Non fosse altro perché Fanfani era di Arezzo e lui è di Firenze. Ma, di sicuro, non può assolutamente essere gradito a Letta.
Perché se il fenomeno politico di oggi fosse simile a quello di allora, la sorte dell’attuale Presidente del Consiglio sarebbe quella di finire ai margini del processo di rinnovamento politico e di essere, pur essendo un cinquantenne, rottamato come capitò, malgrado le indiscusse capacità personali, a Pella. Può evitare l’attuale Premier che la storia si possa ripetere ai suoi danni? Per spezzare il ciclo del ricorso storico avrebbe come unica possibilità quella di potenziare al massimo il suo Esecutivo e ribaltare sul Pd lo schema renziano-fanfaniano del “Governo amico”. Ma per giocare la carta del “partito amico” Letta dovrebbe contare su una coalizione non solo coesa e compatta, ma anche caratterizzata dalla presenza di personaggi di massimo spessore e di grande capacità. Cioè su condizioni che al momento non esistono.
E che neppure potrebbero verificarsi visto che la proposta dei montiani di Scelta Civica di rinforzare il Governo nominando vicepresidenti del Consiglio i leader di tutti i partiti della coalizione è stata già bocciata da Renzi con il “no” al rimpasto. E servirebbe solo a rendere ancora sempre meno “amico” il Governo rispetto al partito del neo-fanfaniano Renzi. A Letta, allora, per sperare di cambiare il destino rimane solo il tentativo di allungare i tempi della transizione. Quella del passaggio dalla generazione degasperiana della Dc a quella fanfaniana-morotea durò buona parte degli anni Cinquanta.
A Letta basterebbe l’attuale legislatura. Ma da allora ad oggi i tempi dei processi politici si sono accelerati. E, soprattutto, il Pd non è la Dc unita dal collante cattolico e protetta dalla guerra fredda e dalla mancanza dell’alternanza democratica. Può essere, quindi, che la transizione sia molto più breve e che Renzi non abbia neppure bisogno di staccare la spina al “Governo amico”. Ancora qualche mese, in sostanza, per un finale inevitabile!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:28