
È molto probabile che Enrico Letta decida di risolvere il “caso Fassina” seguendo il suo istinto da democristiano di vecchia scuola. Cioè evitando accuratamente di non sostituire il viceministro dimissionario. Il Presidente del Consiglio non ha mai dimenticato la regola dettata da Giulio Andreotti secondo cui “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Per cui, per tirare a campare il più a lungo possibile e non correre il rischio di tirare le cuoia in seguito ad un rimpasto destinato a sfociare facilmente in crisi, è prevedibile che reagisca alle dimissioni di Fassina facendo finta di nulla. Può essere che questa tattica aiuti Letta a tenere in piedi il governo. Di sicuro, però, la vicenda Fassina non aiuta il Pd a restare unito.
Anzi, a distanza di meno di un mese dall’elezione plebiscitaria di Matteo Renzi alla segreteria del partito, riapre un congresso che non essendo mai stato celebrato di fatto non è mai stato concluso. Le Primarie all’italiana, infatti, sono una operazione mediatica ma non hanno nulla a che vedere con il tradizionale congresso di un partito organizzato secondo lo schema dei vecchi partiti di massa del Novecento europeo. Certo, Renzi è stato eletto segretario con una valanga di voti. Ed i suoi avversari sono stati umiliati da percentuali irrisorie. Ma la maggioranza dei propri voti il nuovo segretario li ha conquistati non nel recinto degli iscritti al partito, ma tra i simpatizzanti esterni. E ora, con il caso Fassina, la contraddizione viene allo scoperto.
Non è un caso che da settimane l’ex viceministro andava sostenendo la necessità di un rimpasto governativo che prendesse atto della nuova segreteria del Pd e sostituisse i rappresentanti governativi della vecchia guardia bersaniana con i rappresentanti della nuova guardia renziana. Il segretario, com’è noto, non vuole sentir parlare di rimpasto. Perché si rende conto che mandare al governo i suoi uomini senza poter contare sul sostegno di un gruppo parlamentare del Pd composto in larga maggioranza da bersaniani si risolverebbe in un massacro. Per questo la mossa di Fassina riapre il congresso mai celebrato. E lo fa sfidando il segretario a chiarire il suo rapporto con il governo Letta.
E accusandolo di avere una concezione proprietaria del partito che può anche avere il consenso degli esterni delle Primarie, ma che fa a pugni con la concezione nutrita dalla maggioranza degli iscritti contraria alla personalizzazione berlusconiana del leader. Letta può ignorare Fassina. Ma Renzi non può permettersi di fare altrettanto. Perché il gesto dell’ex viceministro dimostra in maniera inequivocabile che il plebiscito delle Primarie non ha eliminato affatto le divisioni interne del Pd. Anzi, le ha sicuramente radicalizzate.
Al punto che il segnale lanciato da Fassina può essere interpretato come l’avvio di una lunga marcia di un’opposizione a Renzi che potrebbe addirittura portare al logoramento progressivo della figura del segretario pronosticato a suo tempo da Massimo D’Alema. Per impedire di essere cucinato a fuoco lento da un’opposizione interna che controlla la maggioranza dei parlamentari, Matteo Renzi ha di fronte a sé una strada obbligata. Quella di puntare ancora una volta sul plebiscito elettorale. Di farlo nel minor tempo possibile. E fare in modo di non arrivare già cotto ad un voto anticipato abbinato alle elezioni europee. Con una possibile scissione in atto!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26