
I ministri di destra e sinistra del governo Letta hanno tirato un sospiro di sollievo dopo la tre giorni di Leopolda di Matteo Renzi che ha lanciato ufficialmente la candidatura del sindaco di Firenze a segretario del Partito Democratico. A loro modo di vedere le quattro riforme lanciate da Renzi per “cambiare l’Italia” costituiscono la garanzia che la sua prossima elezione plebiscitaria a leader del Pd non comporterà la caduta del governo e la sua corsa per la premiership con il ricorso alle elezioni anticipate.
Franceschini da un lato e Quagliariello dall’altro si sentono rassicurati sulla tenuta e la durata del governo dalle parole di Renzi. Beati loro! Ma forse non sarebbe male se oltre alla soddisfazione per la presunta assicurazione ricevuta riuscissero a comprendere il senso dell’iniziativa del sindaco di Firenze e a ricordare a quali risultati portarono i precedenti dello stesso tipo. La Leopolda equivale all’annuncio della discesa in campo di Silvio Berlusconi o, se vogliamo, alla manifestazione del Lingotto in cui Walter Veltroni lanciò la sua idea del Pd come partito innovatore a vocazione maggioritaria.
Alla Leopolda, in sostanza, Renzi ha proposto l’idea di una riforma del Partito Democratico incentrata sulla personalizzazione del leader mutuata dal modello politico americano. Né più, né meno di quanto avevano fatto in precedenza Berlusconi e Veltroni.
Renzi non ha mai nascosto di perseguire questo modello. Che oltretutto è sancito dallo statuto di un Pd che con l’istituzione delle primarie, imitate non tanto dal sistema politico Usa quanto dalla versione mediatica di quel sistema, ha spianato la strada alla personalizzazione estrema del vertice del partito. Ma, a dispetto di quanto possono pensare Franceschini e Quagliariello, l’applicazione della versione mediatica del modello americano non è priva di conseguenze.
Perché negli Stati Uniti le primarie non servono al eleggere il segretario del Partito Democratico o di quello Repubblicano, ma a nominare il candidato premier alla presidenza. E dal momento della conclusione delle primarie al voto per la presidenza deve passare un tempo necessariamente breve, perché, altrimenti, l’effetto galvanizzante dell’elezione del candidato premier rischia di svanire.
A causa della regola imposta dalla società dei consumi comunicativi secondo cui ogni notizia data all’opinione pubblica si esaurisce con estrema rapidità perché sopravanzata dall’incalzare di altre nuove notizie. I tempi lunghissimi della politica italiana tipici della Prima Repubblica sono stati cancellati dall’avvento della società della comunicazione che ha portato all’imitazione del modello personalistico americano. Non a caso Berlusconi annunciò la sia discesa in campo a pochi mesi di distanza dalle elezioni che segnarono il suo primo trionfo.
E sempre non a caso l’incoronazione di Veltroni a segretario del Pd portò nel giro di pochi mesi alla fine del governo Prodi e al ritorno alle urne (quelle che diedero al Pd il 33 per cento dei voti). Basterebbero queste considerazioni per suscitare qualche preoccupazione in Franceschini e Quagliariello. Credere che una volta segretario del partito per volontà plebiscitaria Renzi sia disposto a lasciarsi consumare in un atto di attesa è pia illusione o pura follia. Cioè lo stesso.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:51