Il peccato mortale di Matteo Renzi

Leggendo con una certa attenzione la ponderosa mozione di Renzi elaborata per il prossimo congresso del Partito Democratico, emergono alcuni elementi interessanti. In primis, al di là degli inevitabili cedimenti alla facile demagogia che il posizionamento politico a sinistra impone, nel documento si manifesta abbastanza chiaramente il tentativo di andare oltre il vecchio steccato, proponendo una sorta di blairismo all’italiana che sappia parlare anche all’elettorato di centrodestra.

Tuttavia su questo piano Renzi, nel caso dovesse prendere in mano il suo partito, dovrà risolvere la questione molto spinosa del rapporto con le formazioni alla sua sinistra, a cominciare dagli eredi più ortodossi del comunismo guidati da Nichi Vendola. In particolare, ripresentando l’ennesima macedonia dell’Ulivo, non vedo come si possa convincere un solo elettore cosiddetto moderato ad optare per uno schieramento per l’ennesima volta sbilanciato sui campioni della spesa pubblica e delle tasse.

Ma è su un altro punto della citata mozione che il sindaco di Firenze commette un vero e proprio peccato mortale, politicamente parlando ovviamente. Nel capitolo finale, in cui si affronta il tema fondamentale dei rapporti con l’Europa, Renzi scrive nero su bianco una sciocchezza imperdonabile, soprattutto per chi ambisce a guidare il Paese in un momento di gravissima crisi economica e finanziaria.

Egli, al pari di tanti demagoghi da 4 soldi che pullulano sul proscenio della politica, si è fatto tentare dall’idea di ridiscutere il limite del 3% nel deficit dello Stato, con l’idea di andare ben oltre per seguire le ben note sirene keynesiane. Ora, prescindendo dal piccolo particolare del pareggio di bilancio che pure il partito di Renzi ha voluto inserire in Costituzione, bisogna essere veri irresponsabili economico-finanziari per sostenere un tale argomento.

Dato infatti che i soldi non crescono sugli alberi, onde sforare il limite nel rapporto spesa pubblica/Pil imposto col trattato di Maastricht occorrono due condizioni: che qualcuno sia disposto a prestarci i fondi necessari e che, elemento dirimente, tutto questo non produca effetti catastrofici sui tassi d’interesse italiani.

Personalmente dubito molto che, con un indebitamento pubblico che ha sfondato il 130% del reddito nazionale, il famigerato spread possa restare intorno agli attuali 230 punti se dovesse ripartire una politica di deficit-spending, per così dire, allegrotta. In questo caso risulterebbe scontato che i mercati - non l’Europa - comincerebbero a chiedere saggi significativamente più alti per sottoscrivere i titoli di uno Stato tornato ad essere dichiaratamente ballerino sul fronte della spesa pubblica.

A quel punto, caro Matteo Renzi, i sempre molto teorici benefici di una rinnovata politica keynesiana di sostegno pubblico alla domanda verrebbero letteralmente annichiliti dai proibitivi costi del nostro colossale debito, con esiti facilmente intuibili. Non ci siamo proprio. Con peccati di questa natura non si va certamente in Paradiso!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:49