
E infine D'Alema esplose con un sibilante: “Mi sembra faccia un po' troppo la vittima”. Renzi ha replicato che mica dipende dal leader Massimo la sua candidatura, mentre Fassina e Cuperlo e Civati e tutti i compagnons de route verso le segreteria si stringono l’un l’altro in un patto anti-renzi. Sì, come nella Rcs dove non si vuole l’avvento del nuovo che avanza, cioè Diego Della Valle, ed è tutto un trapestio nei salotti e nelle mediobanche per bloccare, con il nipote dell’avvocato, l’irruenza dello “scarparo” (D'Agostino dixit), così nel Pd le nomenclature di sempre costruiscono la santa alleanza contro il sindaco di Firenze. Un vero e proprio patto di sindacato stipulato in un gruppo dirigente, sconfitto alle elezioni e nel post elezioni, che non ha alcuna voglia di farsi da parte, non tanto o non solo per le miriadi ragioni di potere, potere vero, che il partito e sue branche gestiscono (Comuni, Regioni, Coop, ecc.) quanto, soprattutto, per una e una sola ragione: politica. Vedremo fra poco quale, anche se è facilmente intuibile. Intanto, però, le chances di Renzi sono parecchie.
Chances di vincere, più che nel congresso, nelle elezioni e diventare capo del governo. Ed ecco subito scattare l'inghippo della duplicità dirimente del segretario e del candidato premier e relative norme. Il regolamento è il regolamento, si diceva e si dice nelle sedute dei burosauri. Eppure, che Renzi sia l’unico ad avere chance di vittoria, questo lo sanno benissimo i dirigenti e questo lo sanno, ancor meglio, gli altri compagni di strada, come il sindaco Pisapia cui è sfuggita una voce favorevole al collega fiorentino. Insomma, intorno allo sconfitto da Bersani alle primarie c'è un’indubbia simpatia ancorché trattenuta da varie ragioni. Innanzitutto perché per Renzi il cammino è in salita per via del suddetto patto di sindacato e non solo, e poi perché Renzi non ha imbroccato, in questi ultimi tornanti politici, la giusta velocità che è fatta, in politica, di toni, di misure e di silenzi. Ha dato l’impressione di occuparsi di tutto e di troppo, a volte di dettagli pretorili a volte di boutade per liquidare un impiccione, a volte di persecuzioni e relative lagne vittimistiche (D'Alema dixit) segno, questo, dell'assenza di un spin doctor (ma dov'è finito Gori?) che lo tenga sempre in carreggiata. Ma segno, anche, di una guerra dei nervi che è, essenzialmente, politica.
Ed eccoci al punto vero della questione, anzi, della questione, gramscianamente parlando. Questa sistematica messa all'angolo di un king maker come Renzi, statutaria o non statutaria che sia, richiama l'egemonismo gramsciano, appunto, che ha permeato la struttura del vecchio Partito comunista italiano, della sinistra e, diciamolo, della cultura italiana. Un giro largo che non vede di buon occhio Renzi. Perché la grande famiglia del Pd è l'erede del Pci, nel Pd vi sono altre famiglie, anche quella di una certa ex Dc di sinistra nella cui sottofamiglia dossettiana non mancano adesioni al culto gramsciano. Il fatto è che Renzi non appartiene a nessuna della famiglie suddette: non è ex comunista né tantomeno gramsciano, non è neppure ex dossettiano o ex democristiano, forse è un ex PP o forse no. Renzi è Renzi, è una storia nuova, è una cosa altra, è una sorta di alieno, un diverso. E che fa paura alla gauche tradizionale: uno che parla, a volte, come l’impronunciabile Bettino Craxi e che, spesso, traccia progetti come il pericoloso Tony Blair e che, in alcune occasioni, si è lasciato scappare promesse scandalose a proposito di art.18, di licenziamenti di fannulloni, di aperture liberali, di mercato. Parole, parole, che a volte pesano. Da ciò il patto di sindacato contro l’enfant terrible. Qualcuno dice che vincerebbe anche, e soprattutto, se facesse un suo partito, via dai dinosauri, lontano dal “Pd meno l”. C’è del vero. Ma i giochi sono appena iniziati. E la strada è ancora lunga.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:30