
Può sembrare bizzarro e paradossale che il fallimento del tentativo di formare il governo da parte di un post-comunista debba essere certificato da un ex comunista. Ma guardando la faccenda da un punto di vista più generale non lo è affatto. Perché quanto sta avvenendo è il frutto di una crisi che si consuma tutta intera all'interno della tradizione del post-comunismo italiano. È da questa area politica che da quarant'anni a questa parte sono giunte le resistenze più accanite a qualsiasi tentativo di riforma sul terreno istituzionale ed economico in nome di una presunta fedeltà alla Costituzione nata dalla Resistenza che però nasconde la pretesa di tenere inchiodata la società italiana agli anni '70, quelli della massima egemonia del Pci sul mondo del lavoro e sull'intero paese.
Ed è sempre da quest'area politica che da quarant'anni a questa parte che si perpetua all'infinito e con la massima determinazione la massima gattopardesca che prevede la predicazione del cambiamento per lasciare tutto e comunque immutato. Questa crisi, che ha il suo punto di massima visibilità nella circostanza che il fallimento di Bersani debba essere certificato da Napolitano, non si scarica sul partito responsabile delle mancate riforme, quelle che sono alla radice delle attuali e particolari difficoltà in cui si trova l'Italia in questa fase storica. Grava esclusivamente sulle spalle dell'intero paese. Che a causa della posizione assunta dal segretario del Pd all'insegna del “non avrai altro governo al di fuori del mio” non solo rischia di non avere un esecutivo nel momento di massima emergenza degli ultimi vent'anni. Ma, soprattutto, corre il pericolo di vedere il proprio sistema democratico, proprio quello nato dalla Resistenza e fissato nelle norme della Costituzione, finire in pezzi sotto i colpi di chi punta a sostituire la democrazia rappresentativa con quella falsamente diretta cara a tutti i totalitarismi di stampo giacobino. Al pettine, in sostanza, è giunto il nodo dell'anomalia italiana del secondo dopoguerra. Cioè la presenza nel nostro paese prima del maggior partito comunista dell'Occidente e poi del maggior partito post comunista dell'intero pianeta. Partiti formalmente diversi ma sostanzialmente identici nel rivendicare il proprio ruolo di forza comunque destinata ad esercitare la propria egemonia paralizzante e conservatrice sulla società italiana.
Per quanto tempo ancora questa anomalia potrà andare avanti costringendo il paese a rimanere immobilizzato dai veti della Camusso e dalla impuntature di Bersani e dei suoi giovani-vecchi turchi? Il compito di fornire la risposta spetta in prima battuta all'ex comunista Napolitano, che deve conciliare la pretesa del “non avrai alcun governo al di fuori del mio” con la necessità di dare comunque un governo al paese. Ma nelle prossime settimane e nei prossimi mesi spetta essenzialmente all'opinione pubblica nazionale, che deve prendere coscienza come il problema italiano sia in realtà il problema dell'anomalia di un ex comunismo mai trasformatosi in moderna socialdemocrazia e deve evitare di convincersi che l'unico modo di eliminare l'anomalia sia quello di inseguire gli irresponsabili teorizzatori della democrazia totalitaria di stampo giacobino. Quanto bisognerà attendere prima che il paese diventi consapevole di questa assoluta necessità? Il tempo d'attesa dipende dal tempo che ci metteranno le forze politiche autenticamente riformiste e riformatrici a superare i vecchi e nuovi contrasti che le dividono ed a dare vita ad un grande schieramento capace di esercitare una effettiva e potente spinta per un effettivo e profondo cambiamento. Tra queste forze non possono mancare gli autentici riformisti presenti nel Pd. Quelli che hanno finalmente superato il post-comunismo e sono entrati nella modernità. E che, al punto drammatico in cui il paese si trova, hanno ormai il dovere di uscire allo scoperto.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:29