Quel matrimonio d'interesse Pdl-Lega

«È meglio cercare di vincere piuttosto che puntare decisamente a perdere». All'insegna di questa affermazione di puro stampo lapalissiano, Silvio Berlusconi e Roberto Maroni hanno siglato la nuova alleanza elettorale tra Pdl e Lega. Che non è un asse di ferro destinato a durare per un tempo indefinibile ma un semplice matromonio d'interesse. Senza la Lega il Pdl non potrebbe sperare né di rivincere in Lombardia, né di impedire che il Pd (oltre a vincere alla Camera, come indicano i sondaggi) possa spuntarla anche al Senato conquistando senza più ostacoli di sorta il governo del paese. Al tempo stesso, senza il Pdl la Lega rischierebbe di perdere le presidenze di Veneto e Piemonte, di trasformarsi da partito territoriale in partito del tutto marginale e di rinunciare al disegno della macroregione del Nord su cui aveva a suo tempo discettato la Fondazione Agnelli e, successivamente, il professor Miglio.

Non si tratta, dunque, di una unione d'amore ma solo d'interesse quella tra il Cavaliere e l'ex ministro dell'Interno. Ma, forse, proprio perché non fondata sull'emotività e la passione ma solo sul calcolo e la razionalità, l'intesa può risultare molto più solida di quanto potrebbe apparire a prima vista, soprattutto alla luce della contrapposizione subito nata tra la candidatura a premier del Pdl di Angelino Alfano e quella della Lega di Giulio Tremonti. A cementare questa solidità concorre un fattore che i critici dell'accordo tra Pdl e Lega tendono a sottovalutare. Si tratta della comune necessità di salvaguardare la propria sopravvivenza. Quella della Lega che in caso di sconfitta in Lombardia e di uscita da qualsiasi gioco riguardante gli equilibri politici post-elettorali sarebbe decisamente compromessa a causa della irrilevanza a cui sarebbe automaticamente condannata. E quella del Pdl che nell'eventualità di non riuscire a pesare in maniera determinante nel nuovo Senato si troverebbe nuovamente di fronte alla prospettiva di una scissione tra berluscones propriamente detti e berlusconiani pronti a passare con Monti dopo le elezioni in nome dell'esigenza di assicurare un governo stabile al paese.

È il famoso “primum vivere”, dunque, il fattore principale su cui si fonda l'intesa tra Pdl e Lega. Il ché non è affatto riduttivo ma può risultare addirittura vincente. Sempre che, ovviamente, la Lega non si lasci trascinare dall'entusiasmo per la possibilità di dare vita alla macroregione del Nord e decida di tornare a parlare di secessione e di rottura dell'unità dello stato. E sempre che , ovviamente, il Pdl non si lasci trascinare nella deriva localistica dei leghisti e dimentichi di essere un partito di dimensione e di vocazione nazionale evitando di affiancare al cosiddetto “patto per il Nord” un analogo “patto per il Sud” con le forze politiche più radicate nelle regioni meridionali. Se la Lega dovesse rinunciare ai propositi secessionisti ed il Pdl riuscisse a chiudere patti simili a quello con la Lega anche con “Grande Sud” di Gianfranco Miccichè e con le liste della società civile nate spontaneamente nel Mezzogiorno, la prospettiva potrebbe tornare ad essere non più quella dell'onorevole sconfitta del 2006 ma quella di una possibile vittoria parziale. In due mesi di tempo recuperare i voti sfuggiti verso l'astensione potrebbe non essere impossibile. In fondo di Berlusconi si può dire tutto il male possibile. Tranne che non sappia fare campagna elettorale e non sappia compiere le rimonte. Anche quelle più difficili!

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:10