Può anche essere che, raccogliendo gli appelli disperati di Pier Ferdinando Casini e di Gianfranco Fini, Mario Monti decida di compiere il grande passo e di presentarsi alle prossime elezioni alla guida dell’area centrista. Ma per fare che? Con quale progetto? Con l’idea di poter succedere al se stesso alla guida di un nuovo governo tecnico nella prossima legislatura? Oppure con la speranza di strappare a Casini la titolarità della politica dei sue forni e contrattare all’indomani delle elezioni (sempre che il suo schieramento diventi l’ago della bilancia della politica italiana) la possibilità di formare il governo con il migliore offerente? O, terza ed ultima ipotesi, con la convinzione di poter convincere Silvio Berlusconi a cedergli lo scettro di leader dello schieramento moderato alternativo alla sinistra e realizzare l’opera non riuscita al Cavaliere di dare vita al Partito Popolare italiano mettendo insieme Pdl, Udc, Fli, montezemoliani ed annessi e connessi centristi?
A questi interrogativi non c’è, al momento, una risposta certa. L’unico dato sicuro è che il presidente del Consiglio ha recepito correttamente il ritiro della fiducia politica da parte del Pdl ed ha rassegnato le dimissioni. E che di fronte a se ha due strade distinte e precise.
La prima è di essere incaricato dal presidente della Repubblica di rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti oltre che per l’approvazione di alcuni provvedimenti indispensabili, come la legge di stabilità ed i decreti mille-proroghe e sull’Ilva.
La seconda è di annunciare di uscire da Palazzo Chigi per partecipare in prima persona alla campagna elettorale e lasciare il ruolo di capo del governo ad un altro personaggio, ovviamente tecnico o comunque super partes, destinato a gestire al suo posto la conclusione della legislatura e la campagna elettorale.
Le due strade, ovviamente, sono antitetiche. Con la prima Monti può mantenere la propria condizione di riserva tecnica della Repubblica. Per succedere a se stesso con un altro governo tecnico nel caso dalle elezioni non dovesse scaturire una maggioranza definita e stabile. O, per diventare, grazie alla conferma della propria “terzietà”, il più autorevole candidato alla successione di Giorgio Napolitano nella carica di presidente della Repubblica.
Con la seconda, viceversa, Monti diventa lo sfidante sia di Silvio Berlusconi che di Pier Luigi Bersani, si trasforma in un soggetto politico alla pari degli altri e perde automaticamente la sua caratteristica di tecnico super partes a cui affidare le sorti del paese e delle istituzioni in nome dell’emergenza.
Non ci sono tifosi per la prima soluzione. Ce ne sono, viceversa, tantissimi per la seconda. Quelli che si oppongono al ritorno della logica bipolare e temono di venire schiacciati dallo scontro tra Bersani e Berlusconi, tirano per la giacca il Professore sollecitandolo a scendere in campo per ricreare le condizioni del quadro politico della Prima Repubblica. E quelli che, con il passaggio di Monti dall’empireo della terzietà al livello terrestre della normale lotta politica, sperano di poterlo tagliare facilmente fuori sia dalla possibile successione a se stesso a Palazzo Chigi, sia dalla partita per la Presidenza della Repubblica.
Questo significa che Monti possa decidere sul serio di delegare ad un altro tecnico il compito di gestire il governo elettorale e di puntare a sparigliare le carte del prossimo voto politico?
Il dilemma è forte. Il Professore non sembra essere un personaggio umorale e da l’impressione di calcolare sempre con grande attenzione le proprie scelte. Ma troppo spesso l’ambizione ha la meglio sulla razionalità. L’importante, comunque, è che la decisione in un senso o nell’altro arrivi presto. Il paese non può attendere.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:21