La fine dell'America che conosciamo

C’è un piccolo paradosso nella rielezione di Obama: la sua vittoria è sì netta nei numeri, ma molto meno di quattro anni fa. Eppure, è incomparabilmente più epocale. Quattro anni fa l’evento era il primo presidente di colore nella storia degli Usa. “Esperimento” eccitante, che ha sedotto molti elettori moderati e centristi, portandolo alla Casa Bianca sull’onda di uno spirito bipartisan. Logorato da quattro duri anni di presidenza, in cui è uscito fuori il suo lato più ideologico, Obama ha perso molti di quei voti (in totale ne ha presi quasi 10 milioni in meno del 2008). Ma proprio per questo la sua è una vittoria di portata storica, perché di (e da) sinistra (niente a che vedere con la “terza via” clintoniana), e perché indica mutamenti strutturali, profondissimi nella composizione e nella mentalità dell’elettorato americano, demograficamente molto diverso da quello del 2004 e più spostato a sinistra. È Obama ad aver cambiato connotati all’America, o è lui stesso il prodotto di tale cambiamento? Probabilmente entrambe le cose insieme.

Una rielezione nonostante dati macroeconomici così avversi, soprattutto la disoccupazione all’8%, fa riflettere sul reale peso dell’economia nelle scelte dell’elettorato. L’economia pesa, certo, ma forse in modo diverso che in passato. Da un lato chi ha perso il lavoro può contare su sussidi più generosi e chi sta per perderlo sul salvataggio della sua industria, come in Ohio; dall’altro, tra no tax area e detrazioni molti americani non avvertono il peso del fisco, quindi sono meno preoccupati dei costi dell’interventismo statale, della sanità pubblica, di cui vedono solo il lato “rassicurante” e umano. E’ un approccio ai temi economici più “europeo”, più orientato alle protezioni sociali che non al dinamismo tipico dell’economia americana, senz’altro accentuato dall’incidenza del voto di afroamericani e ispanici, più inclini all’assistenzialismo.

Temi quali l’immigrazione, l’aborto, le unioni gay, sono stati decisivi in negativo per Romney, l’hanno reso invotabile anche da parte di elettori sull’economia critici nei confronti di Obama, perché il Gop resta drammaticamente arretrato su questi temi, ormai chiave per far breccia su elettorati determinanti. Obama ha infatti surclassato Romney oltre che nel voto femminile (+12 punti) e in quello degli afroamericani (+87), anche nel voto di ispanici (+40) e asiatici (+49), persino più di McCain (distanziato rispettivamente di 36 e di 27 punti), mentre ha mantenuto un ampio margine nel voto dei giovani (24 punti contro i 34 del 2008).

La forza di Obama, grazie al colore della sua pelle, sta nell’aver dato rappresentanza a una parte di America che fino ad oggi era rimasta divisa (troppo distanti tra loro giovani liberal, afroamericani e ispanici) e lontana dalle urne e che oggi, invece, si è risvegliata unita e maggioritaria nel paese.

Ma sarebbe sbagliato mettere sotto processo Romney. Nel voto popolare ha recuperato molto (da -7,3% a -2,3%) e ha strappato a Obama North Carolina e Indiana. Non era il candidato perfetto, probabilmente non ha scaldato i cuori e le menti della “Right Nation”, ma se ci fosse riuscito avrebbe perso troppi voti moderati e centristi, che invece ha in parte recuperato. Il tipico dramma della coperta troppo corta, insomma. Sfida tremenda che ha di fronte tutto il Gop: come rappresentare la “Right Nation” e allo stesso tempo aprirsi su temi quali l’immigrazione e i diritti civili?

Da oggi, insomma, l’America è un po’ meno “eccezionale”. Da altri quattro anni di Obama alla Casa Bianca possiamo aspettarci la prosecuzione a tappe forzate del processo di “europeizzazione” degli Stati Uniti, una svolta storica.  

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:38