Non siamo mica gli americani...

Comunque vadano a finire, per noi italiani queste elezioni americane rimarranno una specie di mistero insoluto. Per quanto avvincente, appassionante, coinvolgente possa essere l’agone elettorale a stelle e strisce, ci sarà sempre un oceano di mezzo tra il nostro modo di concepire la politica e l’American way. Impossibile, infatti, non guardare al di là dell’Atlantico senza provare un briciolo d’invidia, o al contrario un malcelato senso di superiorità, a seconda di quanto l’osservatore disprezzi o idolatri quell’onnipresenza ramificata dello stato nella vita quotidiana che caratterizza la Vecchia Europa, l’Italia soprattutto. 

Da italiani politicamente corretti, non potevamo fare a meno di tifare per Barack Obama, il presidente che forse più di ogni altro ha cercato di europeizzare gli Stati Uniti introducendo un concetto di welfare state che ben poco si attaglia al sogno americano. Obama è il presidente nero eletto per riscattare le minoranze, gli oppressi, i deboli, gli ultimi. Contro i ricchi crapuloni, cui non potremo mai perdonare di essere più ricchi di noi. Contro la finanza brutta e cattiva, dalla quale non possiamo accettare la lezione che non si può vivere al di sopra delle proprie possibilità, tantomeno con i soldi pubblici. Contro ogni self made man, che, come lo stesso Obama ha involontariamente ribadito in una delle sua gaffe più celebri, non avrebbero mai potuto costruire nulla da soli senza uno stato ad aiutarli. O, perché no?, a limitarli nelle loro incomprensibili manie di grandezza.

Sarà forse il nostro retaggio da medioevo feudale a farci battere il cuore per il cavaliere senza macchia che difende le vedove e gli orfani, e la nostra cultura ancora così radicatamente cattolica a mandarci in sollucchero per ogni Madre Teresa in doppiopetto che ci indottrini alla morale della condivisione caritatevole. Non comprenderemo mai fino in fondo le ragioni dell’altro, Mitt Romney, l’uomo d’affari ricco e di successo (entrambe colpe gravissime) che difende a spada tratta quel “diritto alla felicità” dal sapore così tanto americano. Troppo americano, per non preferirgli la versione edulcorata e buonista di un Obama qualunque.

Ci apparirà sempre come un rebus il diritto di ogni cittadino ad inseguire i propri sogni e realizzarli con le sole proprie forze, senza che qualche grigio burocrate venga a mettergli i bastoni tra le ruote in nome di un non meglio specificato bene comune o, ancora peggio pretenda di sottrargli la gran parte delle ricchezze conquistate a prezzo di uno sforzo immane per ridistribuirle a chi non è stato abbastanza bravo, abbastanza determinato o anche solo abbastanza diligente da fare la propria parte per conto proprio.

Secondo l’ottica italiana, chi perde, perde solo perché è sfortunato, perché l’arbitro della contesa era parziale o perché l’avversario ha giocato sporco. Chi vince, di conseguenza, ha sicuramente truccato le carte per sopravanzare tutti gli altri. Non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello che laggiù nella “terra delle opportunità”, dove a tutti bene o male viene data l’occasione di dimostrare ciò di cui sono capaci, questi parametri non abbiano senso. Per questo un manager in grado di far guadagnare milioni di dollari alla sua azienda e a tutti i suoi azionisti sarà sempre guardato quantomeno con un certo sospetto, mentre un prodigo benefattore avrà sempre la massima comprensione, nonostante faccia la carità coi soldi altrui.

L’iconografia del cowboy solitario che a Romney calza a pennello ci piace solo se è su celluloide, e possibilmente declinata in uno Spaghetti Western. Eppure, al di là di ogni facile luogo comune, è proprio quella che descrive l’America meglio di ogni altra. Ma a noi italiani che sognamo l’America dal momento in cui veniamo al mondo, l’America vera non piace. Perché guardandola attraverso le lenti annebbiate da una patina di socialismo salottiero non la capiremo mai fino in fondo. Preferiamo l’illusione di uno stato che risolve sempre tutti i nostri problemi, senza renderci conto che la sua onnipresenza non fa altro che crearne di nuovi. Preferiamo la vulgata secondo la quale il merito, la capacità e l’ambizione non sono pregi, bensì inaccettabili insulti a quella mediocrità cui tutti dovremmo aspirare per non scontentare mai nessuno. Preferiamo persino l’endorsement della popstar, dell’attore e dell’intellettuale multimilionario che pur non avendo mai lavorato nemmeno un solo giorno in tutta la loro ovattata esistenza non perdono occasione per indottrinarci su quanto sia bello e giusto pagare più tasse. 

Anche per questo, sognando eternamente Obama, ci condanniamo regolarmente a votare in casa nostra delle brutte copie sbiadite.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:35