È un film già visto in un passato ormai lontano quello in cui si vede il segretario del Pd Pierluigi Bersani definire “fascisti” i grillini, i dipietristi, i giustizialisti che, in difesa dei magistrati di Palermo considerati aggrediti dai post-comunisti ortodossi, lo definiscono uno zombie da cancellare al più presto dalla scena politica nazionale.
La storia di Bersani è quella di un berlingueriano di scuola emiliana che dovendo fronteggiare un inaspettato “nemico a sinistra” reagisce nel solo modo imparato durante gli anni ‘70 sui banchi di quella scuola che, a sua volta, sapeva insegnare esclusivamente gli schemi ispirati dal modello togliattiano della Terza Internazionale.
Non è un caso, allora, che su L’Unità, ormai definitivamente normalizzata da Bersani, venga sottolineato come l’eredità lasciata da Togliatti rappresenti il vero Dna del Partito Democratico.
Il Migliore aveva imparato dal suo maestro Stalin che i nemici a sinistra dovevano essere combattuti denunciandoli di fronte all’opinione pubblica come dei criminali oggettivamente fascisti.
Le vicende dei trotskisti, degli anarchici spagnoli, di Tito insegnano. E, così come negli anni ‘70 il togliattiano Enrico Berlinguer fino all’assassinio di Guido Rossa continuò a definire “sedicenti” le Brigate Rosse ed epigoni del “diciannovismo” fascista gli autonomi antagonisti, il berlingueriano Bersani accusa Grillo e Di Pietro di essere dei fascisti. E la sua linea viene immediatamente adottata da quella parte dei dirigenti e degli intellettuali del Pd che fanno parte della stessa scuola del segretario e che non conoscono altro modo di fronteggiare i concorrenti della propria stessa area politica che quello di criminalizzarli con l’epiteto per loro più infamante e squalificante.
In attesa che il film si completi con l’irruzione sullo schermo di qualcuno capace di rilevare come i presunti fascisti giustizialisti facciano in realtà parte dell’album di famiglia della sinistra, ci sono due considerazioni da fare. La prima è che se Bersani pensa di combattere quelli che lo definiscono zombie con schemi dialettici vecchi più di ottant’anni finisce col dare loro perfettamente ragione. Le giovani generazioni (ma anche quelle più mature e vecchie) non parlano più la lingua dei bisnonni e dei nonni.
Non la comprendono e, quindi, la respingono come l’espressione di quella cattiva politica che dicono di voler combattere. La seconda è che, come al solito, il dibattito tra le due sinistre, quella ortodossa togliattian-berlingueriana e quella giustizialista grillo-dipietrista, domina incontrastato la scena politica e culturale del paese. Come se lo scontro fra le idee fosse una prerogativa esclusiva della sinistra e delle sue articolazioni e nessun contributo al dibattito potesse mai venire da settori diversi dalla sinistra stessa. Di questi silenzi, di questi vuoti è sicuramente colpevole il mondo del centro destra. Che assiste soddisfatta alle lacerazioni ed alle fratture in atto nella sinistra. Ma non osa rivendicare il merito di aver anticipato di almeno venti anni, in nome dei valori dello stato di diritto e della democrazia liberale, le diatribe sul giustizialismo fondamentalista e sui pericoli ad esso connessi. Al centro destra, allora, una critica ed un avvertimento. Non si vince la battaglia dei voti senza avere il coraggio di rivendicare il primato delle idee.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:08