Ma per l'Islam il velo non è un obbligo

Dov’è l’Italia? Dov’è il mondo arabo? A volte mi pare di non riuscire a distinguere le due sponde. Ma non perché ci sia realmente quella comunione di intenti e di culture che da tempo si auspica, bensì perché spesso le sponde paiono invertite. Mi spiego, non ho dimenticato la geopolitica e non ho intenzione di rivedere la teoria dei continenti, ma sono del tutto convinta che l’infiltrazione del pensiero estremista in casa nostra stia facendo sì che in una sponda, nonostante la primavera islamica, ancora si possa discutere e mettere in discussione alcuni principi, mentre sull’altra, che si vanta di essere civile e storicamente avanzata, questo non si può più fare.

In Marocco, qualche mese fa, sulla sponda araba è stata discussa la tesi di Mohammed Rashed, studioso egiziano la cui tesi sulla non obbligatorietà del velo sta facendo discutere (e in alcuni casi azzannare) molti studiosi arabi. Premetto che la tesi di Rashed è stata certificata dall’Università di Al Azhar, autorità vera in materia di Islam e di interpretazione del testo sacro. «Chi propende per l’obbligatorietà dell’hijab ha deviato dagli scopi della legge islamica e della sua vera interpretazione. Ha rifiutato il ragionamento, basandosi solo sul testo letterale». Rashed punta sullo «sforzo giurisprudenziale (ijtihad), ovvero lo sforzo di energia mentale del giurista musulmano di dedurre sentenze giuridiche dal sacro dell’islam», parole che certo non potevano non suscitare sconvolgimento fra chi o non sa o non vuol prendere atto di questa realtà. Averroè in questo ragionamento è sempre e perennemente presente, con il suo monito a migliorare sempre il proprio pensiero e con esso la propria dimensione e sfera personale. «Hijab – dice Rashed – significa tenda, partizione e il versetto di cui si parla è specificatamente rivolto alle mogli del Profeta come “separazione”. Non c’è disputa tra gli studiosi a tale proposito. Il termine hijab è finalizzato ad avere una partizione tra le mogli del profeta e dei suoi compagni. Non è rivolto alle donne musulmane, altrimenti sarebbe stato specificato apertamente». Nulla di più normale ma di così straordinariamente rivoluzionario, in parole che dette da uno studioso di Islam hanno un valore semmai ancor più deflagrante.

E la sponda italiana? Come reagisce? Che dice? Nulla, ahimè, come temevo. Anzi, la cosa sta facendo breccia fra le lobbies di alcuni convertiti di ferro, che parlano della tesi di Rashed e la demoliscono verbalmente (ma non concettualmente) benché non sappiano nulla, né di Islam né di chi porta avanti questa tesi. Storie di ordinario “convertitismo” all’italiana, atteggiamento e modus operandi che riesce a far del male anche a chi si converte e non per forza vuol divenire un estremista. 

Ma del resto si può chiedere di accettare la libertà a chi pensa che il niqab sia un diritto? Si può chiedere di migliorarsi nell’ijtihad a chi non conosce nemmeno i cinque pilastri dell’Islam? Credo di no, perché la calunnia, che di per sé conferma l’essere senza argomenti, è un’arte in cui certi signori sono insuperabili e che spesso pagano salatissima. 

Le due sponde sono così assai vicine, con la sola differenza che laddove l’Islam ha virtualmente la sua casa madre ancora è concesso dissentire argomentando, mentre qui, dove ci si converte spesso per altri motivi dalla fede, il dissenso è preda del jihad by court, la jihad delle denunce e delle querele. Sempre nella stolta ignoranza del fatto che si processano le persone, ma la verità non si fa mai processare. Vince e basta.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:32