Il dibattito sulla riforma del lavoro è diventato surreale. Il
Presidente del Consiglio, Mario Monti, ha affermato che compito del
proprio governo è ridurre progressivamente la distanza che al
momento separa la Costituzione materiale da quella formale. Cioè
che l'esecutivo vuole ridimensionare il potere di veto che i
sindacati hanno esercitato per l'intera durata del secondo
dopoguerra e continuano ad impiegare per condizionare a proprio
vantaggio la politica nazionale.
La risposta di Susanna Camusso è stata come sempre decisa. «La
Repubblica - ha ricordato - è fondata sul lavoro». Per cui, secondo
la rocciosa segretaria della Cgil, sbaglia Monti quando si propone
di identificare Costituzione materiale e formale e ridimensionare
il peso dei sindacati. Perché, a suo parere, in questo campo le due
Costituzioni si identificano fissando con l'articolo 1 il diritto
delle associazioni dei lavoratori di esercitare il loro potere di
veto sull'intera politica nazionale. Insomma Monti, costituzione
formale alla mano, vorrebbe che i sindacati non pretendessero
di continuare a cogestire le grandi scelte del paese attraverso il
metodo della concertazione che consente di attuare solo le misure
provviste di placet delle grandi Confederazioni. La Camusso, al
contrario, sbandierando la Costituzione materiale, pretenderebbe
che la concertazione non avesse mai fine, e che la Repubblica
tornasse ad essere quella pan-sindacale degli anni Settanta, quando
il potere reale era nelle mani della cosiddetta Trimurti
Cgil-Cisl-Uil.
Il dibattito è serio. Perché tocca una questione di fondo. Che
è quella di quali debbano essere i rapporti tra forze politiche e
sindacali in una corretta democrazia. Ma è anche terribilmente
surreale visto che, pur essendo incentrato su due modi diversi di
interpretare la Costituzione, nasce da una incredibile rimozione
della Costituzione stessa. Cioè dalla constatazione che, se fosse
mai stato applicato l'articolo 39 della Costituzione, non ci
sarebbe mai stata distinzione tra aspetto formale e quello
materiale. E, soprattutto, la prassi della concertazione e del
diritto di veto delle associazioni dei lavoratori avrebbe avuto un
ben diverso sviluppo rispetto a quello che abbiamo sotto gli occhi.
Si discute, in sostanza, su una questione già decisa da oltre
sessant'anni dalla Costituzione. L'articolo 39 stabilisce non solo
la libertà dei sindacati ma anche che abbiano statuti interni
democratici e personalità giuridica. Cioè fissa norme che se
applicate avrebbero reso e renderebbero inutile il dibattito in
corso. Peccato, però, che quelle norme siano rimaste lettera morta.
I sindacati sono sicuramente liberi ma non hanno statuti interni
democratici, non vengono registrati, non hanno personalità
giuridica e continuano ad usufruire della stessa condizione
giuridica di associazione non riconosciuta di cui godono i
partiti politici. Oltre alla Costituzione formale ed a quella
materiale c'è, dunque, anche quella dimenticata. Curioso che in
questi tempi di campagne moralistiche contro l'uso disinvolto del
denaro pubblico a nessuno salti in testa di rilevare che i
sindacati, i quali vivono e prosperano sempre e comunque grazie al
supporto pubblico, non debbano in alcun modo certificare il numero
reale dei loro aderenti, non abbiano vincoli e regole di sorta
nella presentazione dei propri bilanci ma continuino a svolgere
funzioni politiche di reale cogestione nella politica nazionale.
Che aspettano i professionisti dell'anticasta ad indirizzare la
loro campagna moralizzatrice anche in questa direzione?
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:33