
Nel 1990, mentre il mondo salutava la fine dei grandi imperi ideologici, un libro silenzioso ma rivoluzionario scardinava un altro dogma: l’idea che solo lo Stato o il mercato potessero gestire in modo efficiente le risorse comuni. Quel libro, Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action (Cambridge University Press, 1990), portava la firma di una donna allora quasi sconosciuta: Elinor Ostrom, politologa americana che avrebbe ricevuto il Premio Nobel per l’Economia nel 2009, prima donna nella storia della disciplina.
La sua scoperta fu semplice e radicale: le comunità libere possono autogovernarsi, senza ricorrere né alla coercizione pubblica né alla privatizzazione imposta. Osservando pescatori, agricoltori e pastori in diverse parti del mondo, l’autrice ha mostrato che regole spontanee, nate dal basso e rispettate volontariamente, producono risultati più stabili e sostenibili di qualunque piano centralizzato.
Era una smentita clamorosa della “tragedia dei beni comuni”, teorizzata da Garrett Hardin nel 1968: non è vero che l’uomo, lasciato libero, distrugge ciò che condivide. Accade il contrario: quando le regole sono condivise e la responsabilità è personale, la cooperazione diventa possibile e duratura.
In tempi di pianificazioni, piani regolatori, regolamenti e vincoli che invadono ogni ambito della vita civile, il pensiero dell’economista statunitense suona come un monito: non serve un potere più grande, serve più libertà organizzata. La vera “governance” nasce dalla conoscenza diffusa, quella che appartiene a chi vive i problemi e li affronta ogni giorno, non ai tecnocrati che li normano da lontano.
La studiosa ha denominato tutto ciò “policentrismo”: l’idea che una società libera debba fondarsi su molteplici centri di decisione, in concorrenza e in cooperazione tra loro. È l’opposto della concentrazione del potere che caratterizza i governi contemporanei, tanto nelle economie dirigiste quanto in quelle solo formalmente di mercato. Ogni volta che un’autorità centrale pretende di “coordinare”, finisce per soffocare le energie creative che l’autogoverno liberamente produce.
Governing the Commons compie trentacinque anni, ma parla al presente più che al passato. Le sue lezioni valgono per le città e i quartieri, per le imprese e per la scuola, per qualunque ambito in cui l’individuo sia ridotto a ingranaggio invece che riconosciuto come soggetto responsabile. La libertà non è un rischio da contenere, è una forza da comprendere.
Il Nobel assegnato alla Ostrom, quindici anni fa, ha premiato un metodo e una fiducia: quella nella capacità delle persone di costruire ordine senza ordini. È la stessa fiducia che anima ogni visione della società come rete di relazioni spontanee, non come organismo da regolare. Dove c’è libertà, c’è apprendimento, innovazione, solidarietà reale ‒ non quella mediata da apparati e sussidi.
Il suo messaggio, più che economico, è politico e morale: non esiste bene comune senza individui liberi. E non esiste libertà dove l’uomo viene sollevato dalla responsabilità di decidere. L’autogoverno non è un’utopia: è la condizione naturale di una società civile.
A trentacinque anni dal suo libro e a quindici dal Nobel, la lezione della ricercatrice di Bloomington e docente dell’Indiana University rimane limpida come un principio di diritto naturale: nessun potere conosce più dell’individuo ciò che lo riguarda.
Aggiornato il 15 ottobre 2025 alle ore 13:33