
Dal controllo temporaneo al comando permanente: il caso scozzese e l’illusione della regolazione
Dal 1° aprile 2025, la Scozia ha abbandonato i limiti agli affitti introdotti nel 2022 con il Cost of Living (Tenant Protection) Act, ossia le misure straordinarie ipotizzate per fronteggiare la crisi del costo della vita. Alla rimozione di quei vincoli si affiancano però ora due novità significative. La prima, è il ritorno alla disciplina ordinaria del Private Housing (Tenancies) Act del 2016: in base a questa normativa, un aumento del canone può essere contestato dall’inquilino anche nei primi dodici mesi e viene rivalutato dal Rent Service Scotland, secondo il cosiddetto “canone di mercato aperto”. La seconda, è l’introduzione, da parte del nuovo Housing (Scotland) Bill attualmente in discussione al Parlamento, delle cosiddette “aree a controllo affitti” (Rent Control Areas): in queste zone, le autorità locali potranno fissare ogni anno limiti agli aumenti, parametrati all’inflazione più un punto percentuale, fino a un massimo del 6 per cento. Si tratta di una soglia imposta dallo Stato, che mina alla radice il principio secondo cui il valore d’uso di una proprietà deve essere determinato dal mercato e dal libero incontro tra domanda e offerta. Non è più l’accordo volontario tra le parti a generare il contratto, ma una cornice normativa che ne predetermina i contenuti. Sebbene nessuna Rca sia ancora attivata, il semplice fatto che siano previste contribuisce a mantenere alta la pressione regolatoria sul mercato, alimentando l’incertezza.
Tale passaggio da misura temporanea a impianto strutturale ha già suscitato forti reazioni da parte degli operatori del settore immobiliare. La Scottish Association of Landlords (Sal) ha espresso preoccupazione per l’impatto che la nuova normativa potrebbe avere sulla disponibilità di alloggi e sugli investimenti futuri, sottolineando la necessità di un ambiente normativo stabile e favorevole alla locazione privata. Anche Scottish Property Federation e Scottish Land & Estates hanno lanciato appelli affinché venga evitato un irrigidimento eccessivo del mercato.
Aggiungasi che l’esperienza degli ultimi anni far ricordare che l’instabilità regolatoria può spingere gli investitori a ritirarsi o a non entrare affatto nel mercato della locazione residenziale. Se i margini diventano imprevedibili e le regole cambiano troppo spesso, nemmeno i progetti più solidi possono reggere. E la carenza di nuovi investimenti si traduce, inevitabilmente, in una contrazione dell’offerta.
A siffatte preoccupazioni si aggiungono considerazioni più generali sull’efficacia dei controlli degli affitti. Come dimostrano numerose evidenze empiriche e precedenti storici, i tetti ai canoni generano distorsioni strutturali: scoraggiano l’edilizia residenziale, peggiorano la qualità degli immobili, ostacolano la mobilità. Invece di aiutare i più fragili, finiscono spesso per danneggiarli, cristallizzando penurie e inefficienze. Il prezzo, che dovrebbe rappresentare il segnale principale del sistema economico, viene neutralizzato. E ciò che ne risulta non è equilibrio, ma stagnazione, arbitrio, regressività.
In buona sostanza, con le iniziative descritte si va verso una normalizzazione dell’intervento pubblico. Esso così da mera risposta temporanea e del tutto eccezionale dinanzi a una crisi diventa struttura permanente che sostituisce la fiducia con il comando. Il diritto di proprietà si trasforma in funzione regolata, subordinata a parametri decisi dall’alto. La contrattazione privata sopravvive, ma sotto sorveglianza, mentre il contratto smette di essere espressione di libertà e assume le vesti di atto conforme a uno schema.
Un tempo, la casa era un bene da costruire, valorizzare, mettere a reddito. Oggi, sotto l’occhio vigile della regolazione, diventa un asset da disciplinare, un diritto da somministrare, un campo di battaglia tra istanze sociali e logiche economiche. Nessuna società, però, ha mai risolto la scarsità di alloggi ostacolandone la produzione. Al contrario, i precedenti esperimenti, come ad esempio quello condotto in Argentina dal premier Milei, dimostrano che solo un ambiente favorevole alla libertà d’impresa e alla certezza del diritto può stimolare l’offerta e soddisfare la domanda.
In definitiva, è questa la lezione che emerge dal confronto tra teorie e risultati: le intenzioni possono essere nobili, ma è la realtà a pronunciarsi sull’esito. Non esistono scorciatoie all’equilibrio. Solo libertà, responsabilità e fiducia nell’iniziativa individuale. Tutto il resto è amministrazione della penuria. Ogni volta che si è tentato di fissare i prezzi dall’alto — dai granai dell’Impero romano ai controlli sui canoni locativi nelle metropoli del Novecento — il risultato è sempre stato lo stesso: mercati neri, abusi, paralisi dell’offerta.
Non sarà certo questa nuova stagione di vincoli a invertire il corso delle cose. Se davvero si vuole sostenere chi è in difficoltà, la via non è la repressione della libertà economica, ma l’incentivo alla produzione, alla concorrenza, alla mobilità. Bloccare i prezzi significa bloccare le soluzioni. E chi invoca giustizia, finisce spesso per ottenere scarsità. Le riforme più urgenti sono quelle capaci di liberare, non di controllare. Occorre restituire alla società civile la possibilità di rispondere ai bisogni, senza delegare tutto a un’autorità centrale. Ogni contratto volontario va inteso non come sospetto da arginare, ma come espressione concreta di cooperazione tra individui liberi.
Una verità semplice e profonda dovrebbe guidare ogni scelta: la casa non si protegge negandone la libertà. La casa si moltiplica, non si amministra. Si costruisce, non si proibisce. Anche in Scozia.
Aggiornato il 18 luglio 2025 alle ore 11:24